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Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2012 alle ore 16:13.

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Nonostante il filosofo di Queens, John McEnroe, nella sua autobiografia Non puoi dire sul serio sostenga che i punti sono poesie scritte sull'acqua, ci sono dieci buone ragioni per dire che il tennis è la prosecuzione della letteratura con altri mezzi, come il sesso è la sublimazione freudiana del tennis.

La prima però non è l'eros, ma è l'odio. Dove c'è odio c'è epica. Andre Agassi ha scritto un intero volume, Open, per dire che ha sempre odiato il tennis. Il suo libro va letto come un'opera letteraria punto e basta. Del resto Alessandro Baricco ha iniziato da Open la lista dei 50 libri del decennio che compila su Repubblica. L'incipit del filosofo di Queens, invece, recita: «Odio le sveglie: il loro incessante ticchettio mi dà sui nervi. Quindi l'11 settembre 2011…». Da newyorkese, McEnroe non poteva non iniziare e finire il racconto con quella data, l'11/9. Mentre Jimmy Connors è il giocatore che in tanti abbiamo amato odiare e lui odiava tutti.

La seconda ragione è che gli spalti assomigliano a un teatro. Per la forma dell'arena, il look degli spettatori e il binocolo degli appassionati per vedere l'inchino di Andy Murray verso il palco reale a Wimbledon. Le amichevoli poi si chiamano "esibizioni", gli atleti sono vestiti da protagonisti di romanzi di Peter Cameron o Glenway Wescott e la durata di un match è come l'Aida, anche di più: dipende dal numero dei set, set come quello cinematografico.

La terza riguarda gli scambi. Ce ne sono di due tipi: quelli durante il gioco, e quella è l'azione, quelli durante i cambi di campo, e quelli sono i dialoghi. Pare – è McEnroe a svelarlo – che i giocatori se ne dicano di ogni, a mezza bocca ma a lingua sciolta.

La quarta ragione è l'amore che sboccia tra un check-in, un doppio misto e una cena dei vincitori. Agassi e Steffi Graf sono figli delle affinità elettive ancor più che di padri che fin da piccoli hanno imposto loro di diventare numeri uno.

La quinta è "lo scriba" Gianni Clerici che ricorda come «il termine ‘servizio' sia rinascimentale, derivato dal fatto che il cosiddetto ‘mandarino' usava servire la palla al battitore». Le parole dette o scritte da Clerici possono non essere letterarie? No, perché sono asimmetriche e quando si dice che il tennis è uno sport asimmetrico – attenzione, bimbi! – in realtà si sottintende che è un'arte più che uno sport.

La sesta è lo star system. Nel tennis – dice chi ci è stato – c'è un contorno di cene e feste che pare uscito da Glamorama di Bret Easton Ellis o da un racconto di Truman Capote.

La settima meraviglia è che Tennis, tv, trigonometria, tornado sono tra le cose divertenti che David Foster Wallace raccontò che non avrebbe fatto più. Per lo scrittore morto suicida nel 2008, il tennis era geometria, ma buona per fare letteratura al punto da considerare Roger Federer come esperienza religiosa, vedi l'ultimo Wimbledon. Mentre La palla da tennis di Mario Soldati è la protagonista di una chiacchierata, passeggiata tra due amici in villa, tra la Liguria, la Toscana e le Storie di spettri, Le scarpe da tennis di Giorgio Bassani, lo scrittore ferrarese che definì Wimbledon «il Vaticano del tennis», oggi sono introvabili; più facile imbattersi in quelle di Enzo Jannacci.

L'ottava ragione per cui il tennis è lo sport più letterario è che si può vincere giocando male, come da manuale di Brad Gilbert, Winning Ugly, discreto campione e poi coach di Agassi. Vincere giocando male significa accettare la propria imperfezione e cercare vie più umane per arrivare alla meta. C'è qualcosa di più neorealista?

La nona e la decima ragione sono: il tie-break a Wimbledon tra Björn Borg e John McEnroe nel 1980, il 18 a 16 per il filosofo di Queens, anche se la partita poi la vinse lo svedese, ma pochi lo ricordano, e la finale di Flushing Meadows del 1988 tra Mats Wilander e Ivan Lendl. Vinse Wilander dopo cinque ore, una battaglia epica. Lo svedese divenne numero 1. Perché nel tennis c'è una classifica individuale, come per i best-seller.

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