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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2012 alle ore 16:12.

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I Sex Pistols sul palco nel 1977I Sex Pistols sul palco nel 1977

Per quanto incendiaria potesse essere in origine, ogni rivoluzione finisce fatalmente per trasformarsi in istituzione dopo la presa del potere. Succede anche ai Sex Pistols, band simbolo del punk inglese, quattro antieroi della working-class che ai tempi belli sognavano l’avvento dell’«anarchia nel Regno Unito» e sfregiavano il volto di Elisabetta II bollando i suoi domini come «regime fascista».
Sono trascorsi esattamente 35 anni dalla pubblicazione di «Nevermind the Bollocks», unico loro unico vero album, e la Emi saluta la circostanza con tutti i crismi riservati al gotha del rock. Il prossimo 25 settembre sarà infatti disponibile un cofanetto super deluxe contenente quattro dischi: tre cd con l’album originale rimasterizzato (cd 1), le rarità e le b-sides (cd 2) e due esibizioni dal vivo (cd 3); un dvd curato da Julien Temple con immagini dal 1977, un book di cento pagine, il 45 giri «God Save The Queen», poster e memorabilia. Il tutto sarà anche disponibile in versione doppio cd deluxe e in vinile (due Lp). L’operazione conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che i quattro carismatici facinorosi capeggiati da Johnny Rotten sono di fatto parte integrante del grande circo del rock and roll cui, all’epoca di «The Great Rock and Roll Swindle», avrebbero volentieri appiccato il fuoco.

L’apoteosi delle Olimpiadi. E col senno di poi «suonano» molto più mainstream rispetto alle origini. Pensate un po’ a quello che è avvenuto lo scorso 27 luglio, in occasione della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Londra: il regista Danny Boyle, nella sua pubblica esaltazione delle magnificenze del British rock, ha dato ai Pistols un ruolo di primo piano in scaletta. Non (come pure ha scritto qualche cronista distratto) con «God Save the Queen» che sarebbe stata troppo persino per le liberali coronarie di Sua Maestà. L’esecuzione allo Stadio Olimpico di «Pretty Vacant», pezzo di sicuro meno caustico del loro repertorio, rappresentava in ogni caso l’apoteosi della band a patrimonio imprescindibile della cultura britannica. Molti gradini sotto rispetto ai (da loro) odiati Beatles e Pink Floyd, ma comunque parecchio sopra a tanti gruppetti che da Steve Jones e soci hanno preso lezione.

Attitudine punk. A voler stabilire un’ideale classifica sul grado di influenza nella storia del rock in rapporto a numero di album prodotti e canzoni composte, i Pistols occuperebbero di sicuro una posizione di vertice: non s’è mai vista una band con così poco materiale originale (giusto un album e quattro singoli) fare così tanti proseliti da una parte all’altra del pianeta. Evidentemente nel loro caso la musica conta fino a un certo punto: a prevalere è la capacità di essere in sintonia con lo spirito dei tempi (e che tempi furono quelli del ’77 londinese!), la potenza iconica con la quale seppero rappresentare il disagio di una generazione/classe sociale, il dito puntato contro la grande truffa dell’industria culturale giovanile che aveva nel rock il proprio braccio armato. In poche parole l’attitudine punk. Credibile che riflessioni così sofisticate fossero tutta farina del sacco di quattro ventenni della classe operaia?

L’intuizione di McLaren. Mettiamola così: i quattro ventenni in questione (checché ne pensino a 60 anni) avevano ottimi tutori. Ossia Malcolm McLaren, ex manager dei New York Dolls, e sua moglie la stilista Vivienne Westwood. Entrambi avevano superato la trentina. Attorno alla loro boutique di King’s Road, il leggendario SEX, prese forma la scena punk d’Oltremanica che, insieme con quella newyorchese, determinerà i canoni del nuovo movimento. E i Pistols ne saranno le avaguardie: il nucleo iniziale del gruppo – che oltre a Rotten e al chitarrista Jones annoverava il bassista Glen Matlock e il batterista Paul Cook – si aggregò proprio intorno al disegno eversivo/musicale di McLaren. Mentre la bandiera estetica della rivoluzione erano i capi di «anti-moda» della Westwood.

Tre accordi e via! In quanto alla musica, la rivoluzione consisteva nell’azzerare il contachilometri rispetto alla sbornia psichedelica degli anni Sessanta e alle raffinatezze progressive dei Settanta: si torna indietro fino a Elvis, all’essenzialità dei tre accordi del rock originario stavolta sporcati da un abbondante ricorso al fuzz. Il resto lo fecero testi iconoclasti e programmatici, eloquenti fin dal titolo: da «Anarchy in the U.K.» a «Holiday in the Sun». Saper suonare non era attributo necessario: non a caso il simbolo imperituro dell’arte dei Pistols resta Sid Vicious, colui che nel ’77 rimpiazzò Matlock al basso dando sul palco più la sensazione di un cruento happening di body art che di un concerto. Un’overdose se lo porterà via due anni più tardi, al termine della tormentata relazione con la groupie americana Nancy Spungen, assassinata in circostanze mai chiarite. In tutto la sbornia dei Sex Pistols – senza contare le reunion fatte deliberatamente per motivi di lucro - durerà poco più di un paio di anni. Il tempo non conta: dal 1977 in poi in ogni artista che sogna di far saltare in aria il sistema c’è un pezzo di loro.

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