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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2012 alle ore 16:16.

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«Enzo Avitabile Music Life» di Jonathan Demme«Enzo Avitabile Music Life» di Jonathan Demme

La 69ª edizione della Mostra di Venezia si apre sotto il segno del documentario: aspettando «Bad 25» di Spike Lee, lungometraggio celebrativo di uno degli album più famosi di Michael Jackson, la kermesse lagunare propone fin dal primo giorno diversi titoli che abbandonano la strada della fiction per raccontare alcuni aspetti del reale.

Il primo tra questi è «Enzo Avitabile Music Life» di Jonathan Demme, regista noto per i suoi lavori di finzione (da «Il silenzio degli innocenti» a «Philadelphia»), che negli ultimi anni ha ripetutamente scelto come protagonisti delle sue opere personaggi dell'attualità politica e artistica.

Seppur i maggiori riconoscimenti gli siano arrivati dalla prima categoria (da «The Agronomist», incentrato attorno all'attivista e conduttore radiofonico haitiano Jean Leopold Dominique, a «Jimmy Carter-Man From Plains»), l'autore americano ha spesso affidato un ruolo di primo piano a musicisti e cantanti come i Talking Heads, che hanno accompagnato il suo esordio nel genere «Stop Making Sense» del 1984, e Neil Young a cui ha dedicato addirittura tre titoli. L'ultimo di questi è Enzo Avitabile, tra i più noti sassofonisti e cantautori napoletani, la cui opera spazia tra il jazz e il folk-popolare. Attraverso performance musicali alternate a dichiarazioni del protagonista e di persone a lui care, Demme ne ricostruisce la carriera evidenziando le molteplici influenze subite da Avitabile, sia in campo artistico che in quello spirituale.

Il risultato è un documentario formalmente semplice, in cui il regista si limita a trasmettere al pubblico il valore dell'opera del compositore partenopeo, ma ricco di quella passione che Demme ha sempre dichiarato di provare per la sua musica. In realtà, più che un documentario si potrebbe definire una serie di jam sessions filmate, in cui la cinepresa, trovandosi in mezzo ad artisti così importanti, fa di tutto per non disturbare l'armonia della composizioni. Opera decisamente più complessa è «Stories We Tell», il ritorno dietro la macchina da presa di Sarah Polley dopo i successi di «Away From Her» del 2006 e «Take This Waltz» del 2011.

Con quest'esordio al documentario, l'attrice-regista canadese compie un viaggio attraverso i generi della narrazione, cercando di coglierne similitudini e contraddizioni. Per l'indagine interrogherà diversi membri della sua famiglia, nel tentativo di capire chi sia quel padre biologico che ha sempre cercato. Decisamente ambizioso nei contenuti, «Stories We Tell» è un interessante esempio di film a interviste, in grado di alternare toni brillanti a momenti duri e terribilmente drammatici. Il soggetto appare certamente originale, ma il fascino dei primi minuti si spegne presto, lasciando spazio a un'operazione fredda, troppo studiata a tavolino e incapace di coinvolgere il pubblico come avrebbe voluto.

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