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Questo articolo è stato pubblicato il 02 settembre 2012 alle ore 08:14.

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e Simone Gozzano
«Il dissidio tra pro e contro / è la malattia della mente». Forse non è proprio una malattia, come riteneva l'autore del poema polemico di scuola Zen del VII secolo, ma gli schieramenti manichei prescindono dai fatti. Come nella discussione sulla sperimentazione animale. Dove si deve essere o pro o contro. Mentre i fatti registrano uno scenario che non coincide con quello prodotto dalla spettacolarizzazione mediatica della vicenda estiva dell'allevamento di Green Hill. Certo è più comodo o naturale – in questo aveva ragione il poeta Zen e lo confermano gli psicologi e antropologi che studiano l'origine del senso morale – essere partigiani che intellettualmente onesti.
L'attenzione per il benessere degli altri animali, e la condanna morale per il loro uso a scopi di ricerca si diffonde con il superamento delle condizioni di arretratezza economica, sociale e sanitaria nel mondo occidentale. Le prime leggi vengono emanate non a caso nel Regno Unito, dove la rivoluzione industriale procede più speditamente. Insomma, la sensibilità per le sofferenze degli animali aumenta via via che i bambini muoiono di meno per malnutrizione, violenza e infezioni, che l'agricoltura e l'allevamento assumono dimensioni industriali (fine delle carestie e delle macellazioni domestiche) e che la vita si allunga. Vi ha certo concorso la diffusione crescente degli altri animali come compagnia domestica. E la maturata consapevolezza, anche grazie alla diffusione di una cultura scientifica, che essi hanno un psicologia complessa. Ovvero, la percentuale più elevata di cittadini contrari alla sperimentazione si trova nei Paesi con i più alti livelli di alfabetizzazione, soprattutto scientifica, e l'avversione a esperimenti su scimmie, cani, gatti o cavalli – più simili o più umanizzabili – è più forte che verso i topi.
A fronte di queste semplici, ma articolate, considerazioni, notiamo che la discussione sulla sperimentazione animale si sviluppa confondendo diversi ordini di problemi. La principale istanza è di natura affettivo-morale: il sentimento di simpatia per le sofferenze degli altri animali motiva la condanna del loro uso per la ricerca. Anche se nell'ultimo mezzo secolo la regolamentazione è diventata sempre più rigida e per primi gli scienziati hanno studiato e trovato come ridurre l'uso e la sofferenza degli animali, chi assume l'equivalenza morale tra l'uomo e gli altri animali chiede l'abolizione tout court della sperimentazione animale.
Si sa: l'emotivismo, la cecità astorica e l'insofferenza per un approccio analitico-pragmatico ai problemi sono i carburanti del settarismo. E con le emozioni non si viene a compromesso. Ma se si usano solo le emozioni, evolutivamente selezionate anche per cacciare meglio in gruppo e spartirsi la selvaggina, succede che quando e dove l'esistenza gira male, gli animali, a meno che non siano protetti da qualche superstizione religiosa, vengono abusati in tutti i modi. Su consiglio diretto delle emozioni, che inducono a sopravvivere. Quando, come in Occidente, gira bene, gli altri animali ottengono un diverso genere di trattamento. Ora, se questo quadro è plausibile, e noi crediamo lo sia, chi ama gli animali non dovrebbe lasciarsi ipnotizzare delle prediche di Petrini, Dario Fo o Latouche, che propongono di diventare poveri o di tornare alla «scienza dei contadini». Che, quando erano ignoranti, erano anche i peggiori carnefici. Non solo verso gli animali.
L'unico modo per far sì che per gli animali e gli umani le cose vadano meglio, è far andar bene, economicamente e culturalmente, l'esistenza umana. Cioè fare in modo che le emozioni si integrino con le nostre esigenze più generali, nella fattispecie con il buon andamento di quella ricerca scientifica con la quale, spesso, le emozioni vengono messe irrazionalmente in tensione. E qui sorge un altro problema. I ricercatori difendono l'utilità della sperimentazione animale e non vanno lontano dal vero quando dicono che le moderne conoscenze biomediche in larga parte non esisterebbero senza di essa. È anche vero che assecondano alcune convenienze, come vantaggi economici o protezioni legali che la sperimentazione animale garantisce. Ma dall'altra parte si nega che la sperimentazione animale abbia aiutato la medicina, e vengono ingigantiti o strumentalizzati i limiti dei modelli animali. D'altro canto, anche la nostra empatia verso gli animali è basata su un modello parziale: sebbene alcuni si avventurino nel portare il proprio cane dallo psicoanalista, in pochi discutono se la terapia freudiana sia da preferire a quella junghiana. E le ansie di un genitore simpatetico verso le soffenze o le paure dei suoi cuccioli conspecifici vengono stigmatizzate se a provocarle sono i cuccioli di altre specie. Per esempio pitbull educati a essere stupidi come il proprietario.
È possibile fare a meno o ridurre significativamente la sperimentazione animale in modo drastico, piuttosto che progressivo come sta avvenendo. A condizione che si sia disposti ad accettare un rallentamento dei progressi medici e quindi un peggioramento della salute umana. Immaginando che nessuno vorrà tornare a usare animali umani per sperimentare. Fatta salva l'ipocrisia. Visto che l'eccesso di protezione legale che vige in Occidente da tempo muove la sperimentazione clinica nei Paesi in via di sviluppo.
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