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Questo articolo è stato pubblicato il 02 settembre 2012 alle ore 08:15.

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Il fenomeno della dissonanza cognitiva è stato molto studiato dagli psicologi ed è supportato da un'ampia base empirica e sperimentale: essenzialmente, esso mostra come le persone, di fronte a fenomeni che risultano incompatibili con le proprie convinzioni molto profonde e radicate, preferiscono ignorare l'esistenza del fenomeno che confuta le proprie convinzioni piuttosto che rimettere in discussione queste ultime. Nel caso dell'impatto della produzione culturale e creativa sull'economia italiana, la dissonanza cognitiva è l'unico fenomeno che può spiegare come e perché l'opinione pubblica italiana sia e resti scettica sul potenziale economico della cultura malgrado una messe di dati e di ricerche che è lì a dimostrare esattamente il contrario.
Significativo in questo senso è il caso del Rapporto Figel del 2006, che, su iniziativa dell'allora Commissario europeo alla cultura Jan Figel, dimostrava che il settore culturale e creativo è uno tra i più grandi e dinamici dell'intera economia europea: un risultato che in altri Paesi ha suscitato scalpore e ha assicurato uno spazio crescente alle strategie di sviluppo dell'industria culturale nelle politiche economiche nazionali, ma che da noi è passato pressoché inosservato, ricevendo una debole e frammentaria copertura mediatica. Altri rapporti si sono susseguiti, tra cui il Libro Bianco sulla cultura curato da Walter Santagata, che offriva una panoramica piuttosto approfondita e interessante della realtà italiana della produzione culturale e creativa nei suoi vari settori, a cui hanno lavorato molti degli specialisti operanti nel nostro Paese – ancora una volta rimasto lettera morta dal punto di vista della sua concreta traduzione in scelte di politica culturale (e quindi a maggior ragione del tutto ignorato dalla politica economica nazionale).
Evidentemente, l'idea che la cultura possa davvero diventare una colonna portante di un nuovo modello di crescita per il nostro Paese ci turba più di quanto siamo disposti ad ammettere, e suscita atteggiamenti di rimozione che ovviamente stupiscono non poco quegli osservatori internazionali che si aspettano ingenuamente da noi un ruolo di primo piano a livello globale su questo fronte. Malgrado segnali così poco incoraggianti, l'attività di ricerca e di esplorazione delle potenzialità della cultura per lo sviluppo del nostro Paese prosegue, e ha prodotto di recente un documento che fornisce ulteriori elementi di un certo interesse: la ricerca promossa da Fondazione Symbola e Unioncamere, e coordinata scientificamente da chi scrive, dal titolo L'Italia che verrà: cultura, economia e società.
La ricerca, che riprende e aggiorna una prima edizione presentata lo scorso anno, traccia un quadro statisticamente articolato della produzione culturale e creativa italiana, grazie anche alla grande capacità di raccolta e di organizzazione dei dati sul territorio del nostro sistema camerale. Alcuni dati di fondo: le industrie culturali e creative, con l'aggiunta del fatturato del patrimonio storico-artistico, delle arti visive e dello spettacolo dal vivo (il cosiddetto nucleo non industriale della produzione culturale) valgono il 4,9% del Pil e il 5,7% degli occupati al 2010. Con l'eccezione del fatturato del patrimonio storico-artistico, nel periodo 2007-2010 tutti i macro-settori hanno registrato una sostanziale espansione del valore aggiunto e dell'occupazione – anche se fanno riflettere la performance negativa del settore dei videogiochi, che pure a livello globale è una delle aree più dinamiche e redditizie, e quella dell'artigianato, sulle cui potenzialità in un Paese come il nostro ci sarebbe moltissimo da puntare. Sempre nello stesso arco temporale di riferimento, nel quadro di una performance generalmente buona di tutte le macro-aree geografiche tanto per valore aggiunto che per occupazione, spicca il risultato occupazionale molto negativo del Mezzogiorno: un dato particolarmente preoccupante, se si pensa alla quantità di fondi strutturali europei messi a disposizione proprio per migliorare tali performance, e a quanto pare poco o male utilizzati – un'ennesima occasione perduta. È poi interessante notare come, in termini di incidenza percentuale sul valore aggiunto a livello provinciale, la geografia dei territori a più alta specializzazione culturale ricalchi in gran parte quella dei distretti produttivi in trasformazione, con punte di eccellenza nella Terza Italia che sembra dunque riconfermare la sua vitalità (Arezzo, Pordenone, Vicenza, Pesaro, Pisa, Treviso, seguite subito da Milano, Roma e Firenze).
Per chi avesse voglia di leggere questi dati e di comprenderne le implicazioni, il quadro che si disegna è piuttosto chiaro: i settori culturali e creativi sono più che attivi, e stanno avendo un ruolo importante nei processi di adattamento strutturale dei distretti un tempo verticalmente integrati. Il punto è che, nello scenario attuale e attraverso le lenti della cultura industriale dell'Italia di questi anni, i settori culturali e creativi diventano visibili soltanto nelle loro espressioni manifatturiere più classiche come il design e la moda, non distinguibili in senso né concettuale né tantomeno strategico dall'industria tradizionale, e quindi invisibili nella loro specificità. Il potenziale della produzione creativa in Italia sarebbe enorme, ma per i motivi detti prima – l'impossibilità di pensare il nostro sviluppo in senso culturale, anche di fronte all'evidenza dei fatti – finisce per disperdersi in mille rivoli nella più totale assenza di una visione strategica organica a livello sia nazionale che regionale. Crediamo, e ci si perdoni il bisticcio, che sia una questione di cultura: la nostra classe dirigente, al di là della retorica di circostanza, non ha idea di come si possa produrre davvero valore attraverso la cultura, "non ci crede" e tutto sommato non gli interessa. Non c'è bagno di realtà che tenga. Peccato che sia uno dei pochi macro-settori in cui abbiamo ancora delle chances importanti. Dunque? Dunque, come disse un grand'uomo in circostanze ben più drammatiche di queste, accada quel che può.

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