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Questo articolo è stato pubblicato il 03 settembre 2012 alle ore 19:22.

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Scena del film 'Apres Mai ' di Olivier Assayas (Ansa)Scena del film 'Apres Mai ' di Olivier Assayas (Ansa)

Che stagione malinconica e opprimente deve aver vissuto Olivier Assayas per raccontarci gli anni Settanta parigini come un periodo guerresco più che trasgressivo, sottotono più che gioioso. "Après mai", in concorso alla 69esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, racconta una generazione imberbe che gioca alla rivoluzione, ma che all'affacciarsi delle difficoltà reali della vita sogna rigore, legge, ordine e normalità.

Il film inizia nel 1971 puntando la macchina da presa su un manipolo di poliziotti in motoretta, che picchia un gruppo di studenti durante una scaramuccia. Il clima è teso, i ragazzi nelle scuole si riuniscono nei collettivi e manifestano le proprie ideologie rivoluzionarie. Tra questi c'è Gilles (Clément Métayer), abilissimo nel disegno, sognatore, partecipe al desiderio di cambiamento, ma soprattutto innamorato di Laure (Carole Combes), bella (ma pessima interprete), disinibita, inquieta giovane artista, che prende il volo verso l'Inghilterra, lasciando a terra il povero Gilles. Per fortuna c'è la lotta a rimpiazzare l'amore e i compagni con cui escogitare azioni di guerriglia urbana, come quella di riempire la scuola di notte di scritte inneggianti alla rivoluzione. Bellissima la scena della fuga dei ragazzi quando i vigilantes dell'istituto si accorgono dell'intrusione: i ragazzi hanno la meglio e nella foga della ritirata tra l'emozione e la paura scatta una scintilla tra Christine (Lola Créton, che aveva già dato un'ottima prova come attrice protagonista in "Un amore di gioventù" di Mia Hansen-Love) e Gilles, che sembra così dimenticare Laure.

La vittoria è temporanea: uno dei ragazzi, Jean-Pierre, perde una borsa con la pagella e viene denunciato e sospeso. Gli amici progettano allora una vendetta e una sera scatta una ronda di punizione in cui i giovani si fronteggiano con i vigilantes a suon di bombe molotov, sassi e inseguimenti: nella concitazione però un sacco di sabbia cade dall'alto sulla testa di uno dei vigilantes che entra in coma. A farne le spese sarà Jean-Pierre, l'unico bersaglio conosciuto, anche se estraneo ai fatti.

Da qui le vite dei ragazzi prendono strade diverse: c'è chi entrerà nella lotta armata (Jeanne-Pierre), chi si darà ai viaggi in Oriente (Alain – Félix Armand e Leslie- India Salvor Menuez), chi soccomberà sotto l'effetto delle droghe (Laure), mentre Gilles continuerà a inseguire il proprio sogno di pittore e regista, allontanandosi progressivamente dagli ideali postsessantottini. Un film, quello di Assayas, che a mente fredda, ha parecchie qualità per riflettere su un periodo che ha cambiato i costumi e il pensiero occidentale: un approccio personale che smaschera il mito della rivoluzione, senza acrimonia, ma mostrando le contraddizioni interne, il senso di solitudine degli individui, la caducità degli ideali di comunanza di fronte alle pulsioni dell'uomo (gelosia, ambizione), senza tuttavia denigrare quel movimento che molti cambiamenti ha portato alla nostra società. Assayas stesso ha spiegato come in quell'epoca: "tutti fossero soffocati da un super io che chiamava alla responsabilità continua per la rivoluzione, il futuro, la classe operaia. Un'atmosfera triste, violenta che si rifletteva sui giovani". "Après mai" è una bella cartolina, cui servirebbe però qualche taglio e che stona in concorso, visto che il regista francese ci ha abituato a migliori prove di regia.

Non ha entusiasmato nemmeno Takeshi Kitano, che ha portato in competizione "Outrage beyond", altra puntata spassosamente splatter della saga sulla mafia giapponese, la Yakuza, con tanto di pistolettate, falangi staccate a morsi e non ultimo l'uccisone di un infedele sottoposto alle raffiche micidiali di una macchina spara palline da baseball (niente male). Senza contare poi l'interpretazione dello stesso regista nel ruolo del mafioso buono (si fa per dire), Otomo. "Outrage beyond" regala un po' di risate macabre e difficilmente entrerà nel palmares. Lasciando la selezione ufficiale vale invece la pena passare un'ora e un quarto alla proiezione di "Terramatta", documentario di Costanza Quatriglio alle "Giornate degli autori" (distribuito da Istituto Luce-Cinecittà). Quatriglio è riuscita nella difficilissima sfida di tradurre sullo schermo il diario di Vincenzo Rabito, un faldone di mille pagine già premiate nel 2000 nel concorso diaristico "Pieve Santo Stefano" e pubblicato in un libro dal titolo "Terra matta" da Giulio Einaudi editore.

Quatriglio ha vinto la scommessa visualizzando l'epopea un ragazzo del '99, descritta con un linguaggio quasi onomatopeico, vergato con la punteggiatura a fantasia di chi è rimasto analfabeta per troppa povertà. Ed ecco la cavalcata tra la miseria siciliana di fine secolo passato, la chiamata alla prima guerra mondiale, la terribile vicenda dello stupro di una ragazza slovena, ammesso con stupito orrore che tutto questo fosse rimasto impunito, l'adesione al fascismo, la campagna africana, la seconda guerra mondiale, l'adesione al comunismo e infine l'arrivo degli amatissimi figli. Difficile trovare materiale per rendere un'epopea personale con immagini di repertorio, difficile decidere quali brani privilegiare, eppure la regista siciliana ci è riuscita. Ha saputo accompagnare con un tappeto garbato di immagini, la forza di un testo meraviglioso nella sua spudorata sincerità, lucidità, ferocia. Divertente anche l'idea di fare incontrare i tre figli di Rabito, con un espediente che forse si è protratto un po' più a lungo del dovuto, leggermente disarmonico rispetto alla struttura compatta del resto del documentario. Ciò non toglie che "Terramatta" è un'indimenticabile sorsata di Novecento, che ci piacerebbe bere più spesso.

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