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Questo articolo è stato pubblicato il 04 settembre 2012 alle ore 19:41.

Il titolo del nuovo film di Kim Ki-duk, "Pietà", in concorso alla 69esima Mostra del cinema di Venezia, è stato ispirato proprio dalla statua michelangiolesca da cui il regista coreano era stato stregato in una delle sue visite al Vaticano. Quell'abbraccio amoroso tra la madre e il figlio crocifisso hanno significato per Kim Ki-duk una tensione ideale verso la gente oggi oppressa dalla crisi generata dal capitalismo esasperato. Così è nata "Pietà", storia di un giovane malvivente, Kang-do (Lee Jung-jin), che riscuote, per conto di uno strozzino, debiti a piccoli artigiani, proprietari di officine meccaniche in estinzione, soffocate dai colossi industriali.
Si tratta di cifre ridicole, che lievitano a causa di interessi stellari, diventando così insolvibili. Kang-do mira a questo per poter storpiare gli indebitati e ritirare così i soldi dell'assicurazione. E' un trentenne brutale, l'incarnazione del diavolo, che infierisce sulle vittime con ferocia indifferente alle loro pene e alle loro miserie.
Ma all'improvviso una donna misteriosa, Mi-sun (Cho Min-soo) compare davanti al giovane, chiamandolo per nome, implorandolo di farla entrare a casa per accudirlo: "Sono tua madre – gli rivela - ti ho abbandonato quando eri piccolo". Kang-do è incredulo e la tratta con la stessa violenza che usa con il resto dell'umanità, fino a che si insinua il dubbio che possa essere veramente la madre. Il ragazzo, orfano di entrambi i genitori, sottopone la donna a dura prova: le fa mangiare un pezzo di coscia che si è tagliato all'impronta, la stupra, ma quella resiste, amorosa, stoica e alla fine lo conquista, scongelando il suo cuore. Kang-do non è più indifferente alle preghiere delle sue vittime, comincia a provare compassione e soprattutto paura che quell'unico genitore gli venga sottratto per vendetta da una delle sue vittime. E cosi accade, o meglio è la stessa donna, che nella realtà non era madre del malvivente, ma di una sua vittima suicidatasi per angoscia e desolazione, a inscenare il rapimento.
Da qui il film, che in alcuni punti è apparso ridicolmente melenso ha una svolta che cambia completamente l'ottica della visione. Kang-do impazzisce, setaccia le baracche e le botteghe della gente che ha rovinanto, rendendosi per la prima volta conto dello scempio inutile commesso. Riflette sul potere del denaro, sottoponendosi a un calvario che si conclude con la più efferata delle vendette: la sottrazione della donna che crede sua madre. Un film forte, intenso e per nulla scontato nella trama, con una grande recitazione di Cho Min-soo, tanto brava da essere annoverata nel possibile palmares come migliore attrice protagonista.
Inizia con un omaggio a Raul Ruiz, , "Le linee di Wellington" (in concorso), perché il regista cileno scomparso un anno fa lo aveva iniziato e la moglie Valeria Sarmiento lo ha portato a termine. Il film narra l'invasione del Portogallo da parte delle truppe napoleoniche nel 1810 e la strategia studiata dai portoghesi, alleati con gli inglesi, per cacciare i bonapartisti. Un'opera in costume, che a dispetto della lunga durata ( 155'), scorre agevolmente nel narrare come Wellington (John Malkovich), per proteggere Lisbona decida di ritirarsi verso le linee di fortificazione di Torre Vedra, facendo evacuare la popolazione. La pellicola è un grande affresco sulle grandezze e le miserie umane per voce dei suoi tanti protagonisti, tra cui Isabelle Huppert, Michel Piccoli, Catherine Deneuve, Chiara Mastroianni. Militari, prostitute, giovani di buona famiglia con una notevole verve libertina, straccioni, zingari, intellettuali, tutti contribuiscono a dare una piacevole pennellata della storia, che per qualità dei sentimenti, potrebbe essere attuale. I soli a farci una pessima figura sono i francesi.
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