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Questo articolo è stato pubblicato il 06 settembre 2012 alle ore 20:34.

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Robert Redford è una certezza: il suo idealismo, la voglia di sbugiardare il sogno americano perché lo ama troppo per non svelarne le magagne, il suo viso inconfondibile e bellissimo, il talento per tenerti attaccato alla poltrona anche se sai come andrà a finire, sono unici e inimitabili.

La formula di The Company you keep, fuori concorso al Festival di Venezia, è sempre la stessa: un'opera civile che serva da metafora e rimando all'attualità, una vicenda personale di dissenso e lotta contro il sistema, due uomini contro il resto del mondo: lo spettatore, prima di accorgersi di stare sempre nello stesso film che dura da almeno quattro decenni, è già irrimediabilmente catturato dalla sua passione politica, dal suo coraggio radicale, dalla voglia di cambiare il mondo persino quando il protagonista è disilluso dalla sua stessa lotta.

Redford oltre ad essere il regista della pellicola ne interpreta anche il protagonista, Jim Grant. Avvocato impegnato nel sociale e padre di una dodicenne, vedovo da un anno, viene investito da una storia che risale a 30 anni prima, quando militava nei Weather Underground, gruppo pacifista radicale che negli anni '70 esprimeva il suo dissenso verso la guerra in Vietnam con attentati agli edifici governativi. In una rapina in banca di questi Weathermen, però, ci scappa il morto e l'FBI si sa, almeno al cinema, non dimentica e ricomincia una caccia all'uomo contro chi allora era in quell'edificio. Viene arrestata una casalinga, la cui copertura viene svelata dal gruppo degli agenti di Terrence Howard. Interpretata da un'ottima Susan Sarandon- che in un'intervista- monologo ci offre le ragioni di quella guerra in clandestinità di americani contro il proprio stesso paese-, è dal suo arresto che un reporter di Albany, il giovane Ben Shepard (Shia LeBeouf, forse nella sua migliore interpretazione, ma ci voleva poco), risale piano piano alla verità, sempre un passo avanti ai federali. La vera identità di Jim Grant, quella del leader del gruppo Nick Sloane, la scopre lui, così come riuscirà a capire, con stile aggressivo e arguto, che la verità preconfezionata ne nasconde molte altre, diverse e complesse.

É un thriller politico di grande efficacia, The company you keep, ma anche una riflessione, quasi più europea che americana, sulla lotta armata. Espressa in modo netto e radicale. Usando le parole del regista e attore, intervistato da Piera De Tassis nell'ambito della serie d'incontri chiamato "Storie dal futuro" nello spazio della Di Saronno qui al Festival, "la verità è che noi siamo privilegiati, abbiamo una libertà che molti popoli non anno e per cui abbiamo sempre il dovere di combattere, venendo esse costantemente minacciate. Per la guerra in Vietnam c'era la leva obbligatoria, molti erano costretti a impugnare armi e a uccidere, o essere uccisi, per qualcosa in cui non credevano. Esistono certe circostanze in cui bisogna combattere, opporsi alle ingiustizie". Redford, poi, porta i suoi protagonisti- tanti grandi comprimari coinvolti in questo "complotto": Richard Jenkins, Brendan Gleeson, Sam Elliott, Julie Christie, Nick Nolte, in una sorta di rimpatriata di amici di grande talento- a riflettere sul passato, sulle modalità d'azione, sugli errori. Senza dimenticare che se pure si lottava nella maniera sbagliata, lo si faceva per le ragioni giuste. Un messaggio che, soprattutto in occidente, ha qualcosa di dirompente. Ma a quest'uomo il coraggio non manca, come quando con sottile ironia, parla dell'endorsement del collega Clint Eastwood a Mitt Romney, candidato repubblicano. Fatto in un messaggio con una sedia vuota accanto. "Non parlo mai dei colleghi, dovreste chiederlo alla sedia". Ma The company you keep è anche un confronto generazionale, una sfida tra presente e passato, uno sguardo impietoso sull'informazione e sul giornalismo, ben raccontata nel confronto tra Stanley Tucci e LeBeouf, tra obblighi deontologici, pressioni di potere e ricerca della verità.

Dopo un film di Redford, ogni volta, senti che il mondo è un luogo pessimo in cui vivere. Ma grazie a lui senti ancora di poterlo e doverlo cambiare.

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