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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2012 alle ore 08:17.

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Il Manifesto capitalista di Luigi Zingales è un appello al populista razionale ad aver fede nel mercato, a non volerlo abbattere, a contribuire, piuttosto, a cancellarne le distorsioni. Il populismo è infatti il punto di arrivo della degenerazione clientelare del mercato americano, una deriva verso l'Italia che l'autore radiografa con rigore e aborre. L'America del mercato anonimo, del merito, quella che Zingales ha conosciuto nei suoi primi anni da studente di economia al Mit, si è a poco a poco corrotta e la deriva dei mercati finanziari da Lehman in poi ne è la conseguenza. L'aumento della disuguaglianza, la crisi delle classi medie e soprattutto la sfiducia nell'élite intellettuale ormai incapace di giudizio e di proporre soluzioni lucide alimentano infine il populismo che in forme diverse si traduce nei Tea Parties o nei sit-in di Occupy Wall Street. I Tea Parties vogliono la fine dello Stato, Occupy Wall Street del grande capitale. Da sponde opposte entrambi propongono soluzioni radicali a un sistema colluso dove cattiva politica e cattivo capitale si sostengono e si danno reciproca sponda. Il populismo è il segno forte di tempi inquieti. Il fatto che il 77% degli americani ritengano che ci sia troppo potere nelle mani di pochi grandi gruppi e grandi ricchi è in fondo il segno della fine dell'American Dream, dell'idea che attraverso il merito e il mercato sia possibile progredire socialmente ed economicamente. Ma è proprio in momenti come questi che il pungolo del populismo, ammorbidite le sue spinte più radicali, può servire a promuovere riforme buone, che favoriscano una nuova ed efficace ripartizione di poteri e compiti tra Stato e mercato, così come avvenne con le riforme progressiste dell'inizio del XX secolo: legge antitrust, trasparenza contabile, norme antifrode e così via. Il libro di Zingales traccia invece le linee guida delle riforme per il XXI secolo.
Ora prima di vedere cosa si possa fare bisogna capire perché si sia arrivati a questo punto. Il problema, per l'autore, è la cattura dello Stato da parte della grande finanza e delle grandi imprese. Dunque, la selezione e i soldi non si fanno più sulla base del merito ma sulla base delle relazioni. Un'economia di sussidio più che di mercato. Questo abbraccio mortale ha diverse cause, ma soprattutto la forte concentrazione del business.
L'esempio più interessante è quello dei mercati finanziari (nel 2008, le prime cinque banche americane detenevano il 40% dei depositi; nel 1984, il 9%). Il potere dei grandi istituti finanziari sia negli anni precedenti che in quelli successivi alla crisi ha generato cattive regole e regolatori collusi che hanno permesso loro di prosperare e fare esplodere i rischi del sistema. Le banche, soprattutto dopo l'abolizione nel 1999 del Glass Steagal Act, che dal 1933 teneva separate quelle di affari da quelle commerciali, hanno continuato a crescere, a diventare animali sempre più complessi e sempre più avvinti a un potere politico che le proteggeva e sosteneva.
La rifondazione di Zingales, Il Manifesto, propone un capitalismo dal volto umano, dove la concorrenza riduce la disuguaglianza (garantendo uguali opportunità), alla larga dal potere politico (limitare le lobbies), dove nessuno è troppo forte (più antitrust e meno concentrazioni), le regole sono poche e semplici, le informazioni, i dati chiari e a disposizioni di tutti. Soprattutto un capitalismo fondato su un'etica, un insieme di valori morali, per cui gli incentivi individuali sono allineati a quelli sociali, dove prevale la fiducia verso chi non si conosce, insomma il capitale civico. Un programma perfetto anche per il populista razionale.
Perfetto, quanto forse utopico. Zingales fa bene a riflettere sul futuro del capitalismo. Ed è giusto fissare dei paletti ideali a cui fare riferimento. Nell'agenda ci sono molte proposte condivisibili e di buon senso. Ma temo che la sua idea di capitalismo cristallino luccichi troppo, soprattutto che sia molto difficile capire sempre e comunque quando la mano invisibile sia allineata ai bisogni della società. Nel senso che è nella natura imperfetta del mercato e del capitalismo stesso evolvere interagendo con società e sistemi politici a loro volta imperfetti.
Le grandi banche non sono forse figlie di una razionale ricerca dell'efficienza e dello sfruttamento delle economie di scala? La bolla immobiliare non deriva forse da un genuino processo di emulazione, da una forte motivazione a far profitto trasferendo ad altri i rischi di impresa?
A monte del grande crack della finanza americana e della involuzione che l'ha accompagnata, non c'è forse l'incapacità di quella società mobile e piena di speranza di continuare a offrire lo stesso tasso di crescita e le stesse opportunità dei tempi in cui Zingales varcava le porte del Mit per la prima volta? Una società dove la creazione e la distribuzione della ricchezza non sono più in grado di compensare la mancanza di Welfare e la carenza di reti di protezione e allora i cittadini continuano a consumare indebitandosi per mantenere uno status quo illusorio ed effimero.
Così come non esiste una società e un'economia perfetta non ne esiste neanche una perfettamente degenerata, come l'Italia che il nostro autore descrive. Egli sostiene nella «Prefazione» che ogni volta che parla in pubblico e fa arrabbiare qualcuno, torna a casa contento con l'impressione di avere detto qualcosa che va oltre il senso di rimozione sociale e tocca le corde della verità nuda e cruda. Leggendo le pagine di Zingales sull'Italia anch'io mi innervosisco. Tutto quello che lui descrive del nostro paludoso capitalismo clientelare c'è ed è vero, ma c'è anche una società viva, dove la selezione si fa sul merito e le persone progrediscono perché sono capaci. Ha ragione lui quando sostiene che le crisi sono utili a rimuovere le peggiori incrostazioni. Speriamo che da questa possa uscire un'Italia migliore, ma quella che c'è non è soltanto corrotta e sfinita.

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