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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2012 alle ore 08:18.

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Passato il Ponte Vecchio, ti avvii a Palazzo Pitti ma se giri a sinistra al primo slargo ti trovi sul fondo il portico e la facciata di Santa Felicita. Ispirano calma e rispetto: è questo uno dei segreti di Firenze, l'equilibrio delle pietre, la semplicità dei colori, un senso di pace. Dentro, lo spazio è magnifico e la Cappella Barbadori del Brunelleschi ha uno dei quadri più belli del mondo. Se resti fuori e costeggi il muro della Chiesa passi a una piazzola appena più grande di un cortile: a destra inizia la salita verso il Belvedere. Gli altri due lati della piazzetta de' Rossi, così si chiama, sono occupati da edifici di non grande pregio ma non privi di dignità. In quello al numero 1, il cinque settembre del 1958 vi era affisso un cartello. Si affittava un minuscolo appartamento e lo presi subito. Avevo 22 anni ed era la mia prima casa da solo. Il centro di Firenze è a misura d'uomo e dalla piazzetta de' Rossi potevo andare in un quarto d'ora alla Facoltà di lettere. Bastava attraversare l'Arno, piazza Signoria, Orsanmichele, il Duomo, l'Annunziata e arrivavo nelle aule dove alcuni maestri cambiarono il senso della mia vita.
Ma la serenità non è cosa durevole in questo pianeta. Qualche mese dopo la situazione politica a Cuba, il mio Paese, divenne insostenibile e il generale corrotto che governava l'isola fuggì l'ultimo giorno del 1958; il giorno seguente subentrò una dittatura di tutt'altro carattere che da più di mezzo secolo tiranneggia il Paese ma in nome della libertà. Le conseguenze di questi fatti furono drammatiche per me ma riuscii a ricostituirmi una parvenza di felicità: era freddo, avevo spesso fame ma quel che studiavo e quel che vedevo mi tenevano allegro. Ogni tanto andavo in chiesa, a Santa Felicita, ma non per pregare, andavo per vedere e rivedere il meraviglioso quadro del Pontormo, una Deposizione con figure bionde e traslucide rassegnate alla propria eleganza, dipinte con lapislazzuli, col corallo e col gelo.
Trovai per caso in una bancarella di libri vecchi una edizione del diario stralunato del Pontormo: racconta come cenava da solo, insalata lessa e pane stantio, e quando passavano gli amici a bussare non rispondeva preferendo restare con le sue ubbie. Anch'io mangiavo pochissimo e a volte non volevo udire il campanello ma, tardi la sera, da troppo tempo solo, suonava l'ora del lupo e uscivo per le viuzze buie di Firenze. Non c'era nessuno d'inverno quando soffiava il vento di tramontana e il grigio e il bianco delle facciate diventavano surreali. Forse una parte del mio cuore si è persa nella geometria insonne della città in cui sono allora rinato.
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