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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2012 alle ore 08:16.

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Pochi anni fa, il paese si appassionò al caso Di Bella. Fior di scienziati, ministri, media e comuni mortali, tutti argomentavano appassionatamente di "clinical trial" ed «evidence based medicine», qualcuno argomentando informato, qualcuno no. Si insisteva con tenacia sul ricorso alla «letteratura scientifica internazionale» come criterio di attendibilità. Dopo tanto menar di dotti fendenti, si stabilì infine, previa idonea sperimentazione clinica, l'inefficacia della cura proposta, e la vicenda e la cura lentamente sbiadirono nella memoria.
Se il caso Di Bella fosse di scena oggi, sarebbe facile ribaltare il risultato del "processo" di allora. A guadagnare il consenso del pubblico e della legge, basterebbe l'uso della taumaturgica parola "staminale". Basterebbe inserire, nel "cocktail" di farmaci impropri e di non plausibile efficacia, l'infusione "delle staminali". E a garantire maggior rispetto da parte di scienziati e ministri, intenti come sono gli uni e gli altri a perseguire "traslazione" al commercio dei "prodotti della ricerca", basterebbe che Di Bella, invece di agire da singolo professionista demodé, agisse in veste di start-up company, che so, la "Oncostamina". Ci sarebbe allora piena attenzione alla richiesta di "Oncostamina" di procedere a un trial clinico. Il trial andrebbe avanti molto a lungo, prima fase I, poi fase II e III, secondo prescrizioni di legge. Passerebbero almeno 15 anni prima di accertare l'inefficacia del prodotto. Durante quei 15 anni, tuttavia, la "Oncostamina" potrebbe, senza aver mai dimostrato l'efficacia di alcunchè, mettere sul mercato non il suo tangibile, efficace presidio terapeutico, ma una semplice promessa. Si veda l'uso delle "mesenchimali" per la malattia trapianto contro ospite, approvata dal servizio sanitario canadese senza che sia completato con esito positivo nessun trial di fase III. Si veda l'acquisizione robusta e presente di risorse sul mercato finanziario da parte di tutte le companies impegnate a sviluppare futuri (dunque incerti) prodotti "staminali". Venderebbe, la "Oncostamina", non un farmaco nè una terapia convalidata, ma una speranza. Il mercato della speranza, in fatto di salute almeno, è inesauribile. E se la speranza si può comprare, la si può vendere. Meraviglie dell'economia post-industriale. In medicina, l'economia post-industriale c'è da sempre. Cos'altro si vendeva, per quattromila anni, prima che esistesse del tutto una qualunque possibilità tecnica di curare razionalmente alcunchè? Cos'altro se non la semplice speranza, si attendevano dalla medicina i malati e le loro famiglie, quando la peste colpiva senza che nessuno sapesse perché, e dunque neanche quale fosse il rimedio? Oggi della peste ci occupiamo come memoria, ma non sappiamo che fare per Alzheimer e autismo, per Parkinson e atrofia muscolare spinale. E prima che esista una terapia razionale ed efficace, se qualcosa si può somministrare e vendere, è solo la speranza. "Le staminali" sono la speranza. Le staminali dunque qualcuno vende, assai prima che esista qualunque canonica prova della loro efficacia clinica. In Thailandia e nelle Filippine, le vendono i mercanti. In occidente, le vendono gli scienziati (alcuni, beninteso). Ecco il problema. La scienza che tuonava contro Di Bella, a volte tuona ancora. Ma a volte no. E la «letteratura scientifica internazionale»? Scorrete le pagine delle più prestigiose riviste scientifiche, quelle totemiche della raffinata élite dell'h-index. Tra molte cose serie (la scienza esiste ancora, ed è forte e vitale nel campo delle "staminali"), vi sorprenderà trovare scritto, e non solo occasionalmente, esattamente quello che i ciarlatani di oggi diffondono via internet. Autismo? Sclerosi laterale amiotrofica? Artrite? Colite? Infarto, ictus? Nefrite? Danno polmonare acuto? Venite gente, abbiamo il rimedio. Uno solo per ogni male. Le nostre staminali. Brevettate. Se si vuole capire come può accadere che un giudice ordini "le staminali adulte" (?) per l'atrofia muscolare spinale, che qualcuno le venda, e qualcun altro le somministri a malati senza speranza; e come equalmente questo avvenga senza uno straccio di evidenza neanche della loro innocuità, speculando sulla debolezza che la malattia è, e che la disperazione aggrava; e nel silenzio assordante di scienziati ministri e soloni, ecco dove guardare.
Cosa è successo? Che cosa ha sbiadito, a danno della medicina, la distinzione tra scienza e alchimia, e convinto molti che esattamente quello che andava proibito a Di Bella, deve oggi da un giudice essere non già autorizzato, bensì disposto – a Brescia, Northern Italy? È molto semplice. È successo che se la scienza si piega al commercio, il commercio piega la scienza. E piega le norme, e le regole, e le istituzioni preposte a vigilare. Converte la mission degli scienziati (ovunque, da Harvard al l'NIH, da Singapore a Torino) dal perseguire la conoscenza al perseguire il prodotto commerciale. E abolisce perfino la «Evidence based medicine». Che vuol dire? Anche questo, è molto semplice. Per verificare che i limoni potessero proteggere dallo scorbuto i marinai inglesi in rotta verso l'Australia, il medico James Lind fece nel 1747 un esperimento.
Scelse un gruppo di marinai. A una parte, limoni; agli altri, acqua salata o altre porcherie. Risultato: quelli che mangiavano limoni protetti, gli altri fottuti. Da allora, se qualcuno volesse vendere o usare i limoni per curare anche l'atrofia muscolare spinale, dovrebbe passare per la stessa strada. Ma se i limoni fossero staminali, e commerciabili, forse no. Scienziati e medici, se ci siete, battete un colpo.

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