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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2012 alle ore 17:01.
Il disastro degli esami d'accesso al Tirocinio formativo attivo (Tfa) rischia di farci dimenticare perché questi esami, e il Tfa, si fanno: per selezionare e formare gli insegnanti migliori. Perciò non dovremmo perdere troppo tempo a ridere dei quesiti sbagliati e dedicarne invece parecchio a riflettere sulle modalità dell'esame e sulla sua stessa opportunità.
Riepilogo. Fino al 2009 c'erano le Ssis: o meglio, fino al 2007, dopodiché non è stato più possibile accedervi. Per abilitarsi all'insegnamento un laureato doveva, dopo l'università, iscriversi (pagando) a un corso di due anni durante i quali, attraverso lezioni e un tirocinio nelle classi, gli si insegnava ad insegnare. Le Ssis sono state chiuse, e ora c'è il Tfa, che è simile alle Ssis (anche il Tfa costa: circa 2.500-3.000 euro) ma dura soltanto un anno, al termine del quale si sostiene un esame. Chi lo passa, è abilitato all'insegnamento.
Per accedere al Tfa occorre fare non uno ma tre esami: anche questi a pagamento, tanto per fare un po' di cassa (50-100 euro). Il primo è quello somministrato dal ministero, un test con domande a risposta multipla («A chi si riferisce il Foscolo scrivendo "e l'ossa/fremono amor di patria"?», seguono quattro nomi); il secondo è uno scritto organizzato dalle singole università nelle varie città, e consiste in prove mirate: versioni di latino e greco, temi di italiano e storia, analisi di testi, eccetera. Il terzo è un esame orale.
Ora, il problema dell'esame ministeriale non sono gli errori contenuti in certe domande: sono le domande stesse. I quiz a risposta multipla sono infatti una scorciatoia che non porta da nessuna parte. Ai candidati alle cattedre nelle scuole medie e superiori si chiedevano cose come «Quando fu pubblicato in prima edizione il romanzo dannunziano Forse che sì forse che no?», «Qual è l'anno della Charte octroyée?», «Dove si trova la città di Porto Fuad?». Io insegno Letteratura italiana all'università e non avrei saputo rispondere a nessuna di queste domande, come a molte altre: avrei tirato a caso tra le quattro risposte possibili, e sicuramente non avrei superato l'esame.
Peggio per me, naturalmente. Forse, se avessi passato l'estate a rileggermi tutti i manuali, comprese le parti scritte in piccolo, ce l'avrei fatta. Ma questo è il modello culturale di Rischiatutto.
In realtà, anche se le domande fossero state più semplici, o più sensate, non sarebbero state una base di giudizio affidabile per decidere chi deve e chi non deve diventare insegnante. I futuri insegnanti dovrebbero conoscere la loro disciplina (e possibilmente anche qualche disciplina contigua) ed essere in grado di parlarne e scriverne con proprietà. Non altro. Per verificare il possesso di questi requisiti i quiz a risposta multipla non servono a niente. Servono – per ripetere il triste verbo che si è usato – a scremare.
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