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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2012 alle ore 09:59.

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Nel 1962, sugli scaffali dei negozi d'oltreoceano comparve un disco intitolato semplicemente "Bob Dylan". Un album che conteneva una serie di traditional folk, qualche blues e un paio di canzoni originali. Dai solchi del vinile si levava la voce di un 20enne bohémien, affascinato dalla beat generation, che si sforzava di assumere un timbro da vecchio e consumato bluesman mentre raccontava la celebre storia della povera ragazza che trova la rovina nella "House of the Risin'Sun".

Il disco passò quasi inosservato e, in quell'anno, vendette poche migliaia di copie. Di lì a poco, però, quel giovane e solitario menestrello venuto dal nord, frettolosamente bollato come la "follia di Hammond" dal nome del produttore che convinse la Columbia a metterlo sotto contratto, avrebbe fatto parlare di sé in tutto il mondo. Principe del folk, simbolo delle lotte per la pace e i diritti civili prima, visionario e allucinato poeta elettrico, poi. L'uomo che mostrò la strada ai Beatles, un'icona capace di attraversare i decenni fino a divenire una leggenda vivente. In una parola, Bob Dylan.

Oggi, a 50 anni dall'esordio, dopo 34 album in studio e una lunghissima serie di premi e riconoscimenti (ultimo dei quali la medaglia presidenziale della Libertà ricevuta da Barack Obama), Robert Zimmerman è pronto a scatenare la sua "Tempesta" sul mondo. Un nuovo disco che, come ogni lavoro di Dylan, è un evento ancor prima di arrivare sul mercato. La data di uscita è l'11 settembre, come già accadde con "Love & Theft" nel 2001. E che sia una scelta simbolica o un semplice caso, poco importa: i dylanogi di tutto il mondo si sono subito scatenati alla ricerca dei significati reconditi di tale coincidenza. Con His Bobness è sempre così, perché il mito di Jokerman è un immenso labirinto di simboli, rimandi, immagini, suoni, congetture, emozioni, ricordi che attraversa 5 decenni durante i quali il menestrello di Duluth si è rifugiato in infinite trasformazioni per sopravvivere alla sua stessa leggenda.

Ma il vero mistero dell'album è come faccia Dylan, a 71 anni suonati, a suscitare ancora un entusiasmo planetario. Ed il vero miracolo è che il vecchio Bob riesca ad invadere le hit parade con una musica che pare uscita da una radio fantasma che trasmette dagli anni '40.

«The more I take, the more I give. The more I die, the more I live». Canta l'inconfondibile voce roca e graffiante. Come dargli torto? Dato per finito un numero imprecisato di volte, arrivato ad un passo dalla morte nel ‘97 per via di una gravissima infezione al cuore, Dylan è più vivo che mai. Il nuovo album si intitola Tempest, riecheggiando l'ultima tragedia shakespeariana, ma Bob, a chi gli domanda se questo sarà anche il suo lavoro conclusivo, si affretta a rispondere, sardonico, che il suo disco ha un "The" in meno rispetto al titolo del dramma in questione.
Quello che è certo è che ci troviamo di fronte a un lavoro ispiratissimo che non tradirà le aspettative (enormi come sempre, per la verità) delle immense schiere di fan. Come un medium, ormai, Dylan entra in contatto con un universo dove rivivono i fantasmi di Hank Williams, Muddy Waters, Robert Johnson e, da lì, trasmette la sua musica senza tempo.

Tempest si apre con Duquesne Whistle (scritta con Robert Hunter), introdotta da alcune note che paiono provenire da un buco spazio-temporale disperso per sempre nell'etere. Poi la canzone vera e propria si lancia in uno swing, al ritmo del quale non ci si stupirebbe troppo se facesse la sua comparsa la voce di Louis Armstrong. Con questo brano, inizia il viaggio che, come prima tappa, porta l'ascoltatore per le strade di una città fantasma. Si prosegue con Soon After Midnight, con Zimmerman in versione crooner per, poi, approdare al blues ruvido e potente di Narrow Way, il cui testo lascia spazio al lato oscuro di Mr. Tambourine Man. Finito l'incubo, arriva un piccolo gioiello, Long and Wasted Years che ci accompagna dalle parti di canzoni come Brownsville Girl, nelle quali il menestrello canta come recitasse o viceversa. Pay in Blood riporta la rotta sul blues-rock alla Rolling Stones mentre Bob, caustico, avverte: « io pago con il sangue, ma non con il mio».

L'album non diminuisce di intensità con Scarlett Town, ballata carica di tensione impreziosita dal suono del banjo, che, anzi, è una delle perle di Tempest. Tocca, quindi, ad Early Roman Kings evocare lo spettro di Muddy Waters, trascinando di nuovo l'ascoltatore in un lungo blues elettrico, prima di lasciare spazio a Tin Angel, brano che racconta una vicenda nerissima di suicidi e omicidi e che precede il vero acuto dell'album. Tempest, appunto. Una ballata folk di 14 minuti che ricorda, da un punto di vista musicale, il Dylan delle origini. Brano fiume come nella miglior tradizione del menestrello, per raccontare la tragedia del Titanic attraverso una galleria di personaggi che vanno dalla Vedetta a Leonardo Di Caprio, da Wellington al Capitano. Prima del maestoso finale nel quale Mr. Tambourine canta, lapidario: « Quando il lavoro della Mietitrice fu concluso, 1600 se ne erano andati, il bello, il brutto, il ricco, il povero, il più amabile e il migliore». E ancora « hanno cercato di capire ma non c'era comprensione nella sentenza della mano di Dio». Una capolavoro che, con il tono delle ballate che cantavano i marinai, offre, nella lunga carrellata di protagonisti e comprimari, un'atmosfera alla Desolation Row.

E, prima di chiudere, c'è ancora spazio per un accorato omaggio a John Lennon, tra citazioni di testi dei Beatles e frammenti di The Tiger di William Blake.

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