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Questo articolo è stato pubblicato il 17 settembre 2012 alle ore 17:02.

Mentre tutti preparano necrologi su Roberto Roversi, ci si chiede quanti abbiano davvero seguito il suo percorso poetico e intellettuale degli ultimi decenni. Per molti, Roversi resta un nome legato solo a «Officina», la rivista degli anni Cinquanta redatta nella sua libreria antiquaria bolognese con Pasolini e Leonetti. Anzi, per molti è appena una nota a piè di pagina nella biografia di P.P.P. Strano destino. Difficile, infatti, immaginare due caratteri più diversi, e due più diverse vicende letterarie e umane. Negli anni Sessanta, quando l'industria culturale e i mass media spazzarono via il mondo intellettuale ancora primonovecentesco in cui era nata «Officina», il poeta-regista Pasolini diventò un'icona mediatica, mentre il poeta-libraio Roversi si staccò dai grandi editori e cominciò a stampare fogli a ciclostile, rivistine e libri distribuiti alla macchia. Ricordo quando Roversi, sorridendo, mi parlava del poco interesse dell'amico per i suoi volumi antichi: arrivava, veniva al sodo, e ripartiva. Pasolini capitalizzava ogni briciola del suo lavoro; mentre Roversi ha disperso la sua opera in plaquette introvabili, trascorrendo l'ultimo mezzo secolo ad ascoltare senza limiti d'orario tutti gli aspiranti scrittori che arrivavano nella sua libreria, e che – dice Stefano Benni – «ripartivano trasfigurati gridando i loro versi sotto il sole». In Italia, la sua scelta tenace di evitare l'industria culturale non conosce paragoni: e questa industria, che non perdona chi non si autopromuove, lo ha ripagato con l'oblio. Eppure quando, stando ai versi di P.P.P., Roversi decise di vivere da «monaco pazzo» che «cerca una clausura nella/clausura», aveva tutte le carte in regola per restare un protagonista della sua generazione. Nel '62 aveva pubblicato da Feltrinelli la sua prima raccolta organica, Dopo Campoformio, che nel recupero in chiave civile, populista e antiermetica del poemetto ottocentesco, è il frutto maturo dell'ideologia officinesca. Come dice il titolo, e come è tipico di Roversi, le disillusioni del Novecento si mescolano qui a quelle di una storia più antica. I versi sono scolpiti, guttusiani: «ogni fosso custodisce un sonno, / i casolari offrono l'acqua, il pane. / Fuggono simili a formiche / lungo i muri, picchiati dalla fame». D'ora in poi, Roversi continua a concepire la sua scrittura per stazioni poematiche. Seconda tappa, tra gli anni Sessanta e Settanta, le Descrizioni in atto, paragonabili al miglior Pagliarani. Qui lo stile è più magmatico (la Neoavanguardia non è passata invano), e l'epica diventa un collage di brani omerici e agenzie Ansa, un espressionistico alternarsi di confortevoli interni neocapitalisti e di incubi atomici o vietnamiti. Siamo in una apocalittica Babele, in cui «basta un giorno e: / grammatica e futuro finiranno». Nel successivo ed estremo poema roversiano, L'Italia sepolta sotto la neve, questa esplosione linguistica lascia ricadere sulla pagina una scrittura sempre più "orizzontale", "elementare" e aleatoria, dove il verso è ridotto a riga e sembra mimare l'assenza di gerarchie attendibili in un mondo globalizzato. Rimane invece inalterata, nell'opera di Roversi, una tensione stilistica che sembra sempre dover trasformare da un momento all'altro le sue vulcaniche parole in azioni. In questo, come nel legame stretto tra moralità e poesia, Roversi somiglia ai più seri scrittori della «Voce», a Rebora e a Jahier. Ma il suo attivismo consisteva soprattutto in una inesauribile disponibilità all'ascolto. Forse è questo il modo migliore per ricordarlo oggi: possedeva in massimo grado quella virtù dell'attenzione che Simone Weil pone sopra ogni altra.
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