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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2012 alle ore 15:23.

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Ha annunciato che allo scoccare dei suoi cinquant'anni, il 14 gennaio 2013, si ritirerà dal mondo del cinema, ma nell'attesa gira un film dietro l'altro: stiamo parlando di Steven Soderbergh, regista americano che negli ultimi quattro anni ha realizzato ben nove pellicole e altre due sono in post-produzione. La sua ultima fatica, «Magic Mike», esordisce questo weekend nelle sale italiane dopo aver superato i 110 milioni di dollari ai botteghini americani, a fronte di un budget di poco superiore ai 7: un successo nato da un'idea di Channing Tatum, attore protagonista del film, ma anche produttore e autore di un soggetto ispirato alle sue precedenti esperienze di stripper in Florida.

Operaio di giorno e spogliarellista di notte, Mike è un trentenne della provincia americana che cerca così di affrontare la crisi economica, senza rinunciare al suo sogno di sempre: portare il suo spettacolo in un ricco club di Miami. A dare una svolta alla sua vita sarà l'incontro con Adam, un ragazzo di soli diciannove anni a cui farà da mentore, insegnandogli a stare sul palcoscenico e a guadagnare soldi facili.

Insieme all'esordio «Sesso, bugie e videotape», Palma d'Oro a Cannes nel 1989, e al sottovalutato «Bubble» del 2006, «Magic Mike» è il titolo più riuscito, toccante e significativo dell'intera carriera di Steven Soderbergh, segnata più da bassi che da alti.

In apparenza una commedia leggera, «Magic Mike» è invece una rappresentazione a tinte drammatiche e quasi funeree di una società alla deriva, simbolizzata da una fotografia (curata dallo stesso Soderbergh) dai toni freddi e distaccati.

In mezzo a tanti spogliarelli, ciò che viene davvero messo a nudo è la dura e intima situazione di un gruppo di uomini (e di donne, di fronte a loro) legati all'illusione di poter ancora vivere una realtà dove il sogno americano non sia svanito per sempre.

Decisamente meno suggestivo è «I bambini di Cold Rock», esordio hollywoodiano del francese Pascal Laugier dopo il successo di «Martyrs» con protagonista Jessica Biel.

L'attrice interpreta Julia Denning, un'infermiera che vive in un'isolata città mineraria dove si nascondono inquietanti segreti: nel corso degli anni sono scomparsi tredici bambini, rapiti, si dice nel villaggio, da una misteriosa entità che dopo averli catturati svanisce nel nulla. Julia, da sempre scettica sull'argomento, inizierà a credere alla leggenda dopo che anche il suo David sparirà nel bel mezzo di una notte come tante.

Il regista, come per la sua sopravvalutata pellicola precedente, dimostra un buon talento visivo che si perde però in una struttura narrativa macchinosa e troppo cervellotica. Nel tentativo di sorprendere a tutti i costi, «I bambini di Cold Rock» con il passare dei minuti finisce per uniformarsi alla produzione media del cinema horror a stelle e strisce.

In conclusione, da segnalare anche l'uscita di «Woody», documentario diretto da Robert B. Weide, totalmente incentrato sulla vita di Woody Allen.

Trasmesso in origine sul canale PBS in due parti di oltre 190 minuti complessivi, è stato ridotto a 113 per rendere la durata più consona alla proiezione sul grande schermo.

Partendo dall'infanzia del protagonista, il film percorre tutta la sua carriera: dai primi lavori televisivi ai massimi successi cinematografici. Più un biopic che un documentario, «Woody» alterna materiale di repertorio, spezzoni della filmografia in primis, a interviste vecchie e nuove fatte ad Allen e ai suoi amici e collaboratori.

Un lavoro rigoroso, ma eccessivamente piatto nella sua struttura tradizionale e privo di grandi guizzi stilistici: piacerà ai fan, molto meno a chi non ha un marcato interesse per l'opera del regista newyorkese.

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