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Questo articolo è stato pubblicato il 23 settembre 2012 alle ore 08:22.

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Tra i motti di un tempo c'era anche quello del «dare un obolo a Belisario»: lo citava una spettatrice, a Bergamo, all'aperitivo con polenta fritta, prima che aprissero le porte del Teatro. Belisario, generale di Giustiniano, era diventato il simbolo dell'uomo di potere caduto in disgrazia, dagli altari alla polvere. Attualissimo. Ma oggi potremmo dare un obolo anche a Gaetano Donizetti, perché dai fasti della quadriga dei principi del melodramma, il compositore bergamasco sta precipitando tra i minori dell'Ottocento. Dei suoi 73 titoli d'opera solo una decina è rimasta in circolazione e al di là di «Lucie» ed «Elisir» quasi nulla ormai di lui si sente. Con preveggente identificazione scrisse nel 1836 un «Belisario», che debuttò felice a Venezia, fu riesumato nel 1969 da Gavazzeni e che questa settimana è ritornato a Bergamo, inaugurando il Festival al Teatro Donizetti. Lavoro della maturità, è innovativo per l'utilizzo di un declamato scolpito, robusto, michelangiolesco e per la tornitura di cori dinamici, inquieti, dai ritmi scalpitanti, a cui viene affidato non tanto il tradizionale commento, quanto la narrazione stessa dell'azione. Bellissimo il «Belisario» e davvero non si capisce perché i nostri teatri non attingano a piene mani dal catalogo donizettiano, per rinverdire il repertorio e per rinfrescarne il profilo storico-critico.
Da qui, ad esempio, emerge chiaro quanto Verdi abbia preso dalla scuola donizettiana e quanti legami di gusto e sensibilità uniscano i due grandi. La partitura sta abbarbicata tra due temi: la delusione amara verso la politica, il rifugio lacrimevole nel privato. I protagonisti sono padre e figlia, devoti l'uno all'altra. Il duetto centrale, nel secondo atto, è precursore di Gilda e Rigoletto. Ai due stanno di fronte una madre totalmente instabile, con vocalità già da Lady Macbeth, e un figlio, tenore caldo e apollineo, che si presenta come prigioniero barbaro, poi si scopre che è greco, poi ancora che è il figlio di Belisario, condannato dal padre a essere ucciso in fasce (da ciò il giustificato squilibrio materno) perché in un sogno era apparso come attentatore al trono di Giustiniano. Famiglia non lineare, a Donizetti piace proprio perché calza perfetta la follia fredda della sua scrittura. Dall'inizio sappiamo tutto. Non c'è evoluzione nel delirio, oggettivato come se fosse la norma. Dal dramma non si esce. Verdi non lo avrebbe accettato. Ma Verdi non aveva il tarlo nero di Donizetti.
A Bergamo brilla il Belisario baritono protagonista di Dario Solari, che sfoggia bella linea di canto, pieno dominio dei recitativi eroici e salda intonazione nel duetto non facile con la figlia, Annunziata Vestri. La vocalità più spettacolare spetta al soprano, Donata D'Annunzio Lombardi, che affronta senza eccessi i taglienti picchi cabalettistici della madre. Una bella sorpresa arriva con il primo tenore, il giovinetto creduto ucciso e invece no, Andeka Gorrotxategui, cognome impronunciabile, prestante, voce armoniosa e limpida. Roberto Tolomelli concerta con pacatezza e molti sonori respiri l'orchestra all'italiana, con gli ottoni un po' lamentosi anziché spavaldi. Angelo Sala firma l'impianto scenico minimalista, di colonne e tendaggi, e i lunghi costumi. La regia di Luigi Barilone non va oltre i movimenti dei pepli. Bene «Belisario», ma scommettere con un obolo su letture più originali andrebbe a vantaggio e fama del Festival.
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Belisario, di Donizetti; direttore Roberto Tolomelli, regia di Luigi Barilone; Bergamo, Teatro Donizetti, fino al 23 settembre

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