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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2012 alle ore 11:15.

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Nel 2000 gli organizzatori della convention del Partito democratico americano non fecero entrare il trentanovenne Barack Obama allo Staples Center di Los Angeles dove il vicepresidente Al Gore ottenne la nomination presidenziale.

Quattro anni dopo Obama è stato scelto per pronunciare il keynote speech, il discorso politico più importante della convention immediatamente successiva, quella di Boston che nominò John Kerry per la sfida, poi persa, contro George W. Bush. Nel 2008, il candidato presidente è diventato lui, il ragazzo nero che otto anni prima fu costretto ad ascoltare il capo del suo partito all'interno di una triste stanza di motel con un televisore sintonizzato sulla Cnn. Qualche giorno fa, Obama ha chiuso per la seconda e ultima volta la convention del suo partito (enfasi su "ultima volta") spiegando perché si merita la riconferma alla Casa Bianca.
Quattro anni, figuriamoci otto o dodici, sono un'eternità nella politica americana. Un'era geologica. Da un ciclo presidenziale all'altro i partiti che si contendono la Casa Bianca cambiano radicalmente. Il brand resta lo stesso, a volte mutano i programmi, ma i leader sono diversi, oltre che legittimati da un lungo processo di selezione (le primarie) che forgia carattere, personalità e biografia. Ma non cambiano solo i leader perché poi nulla cambi dietro di loro: si rinnova tutta la classe dirigente, senza isterie, senza polemiche, senza i sopracciò di grandi vecchi o di fondatori convinti di essere proprietari del partito.

Semmai funziona come nelle squadre di calcio. A un certo punto fisiologicamente si è costretti a cambiare formazione, i Del Piero non scendono più in campo, non perché si vuole loro male, anzi, ma perché lo impone l'inesorabile scorrere del tempo. Magari continuano a dare un sostegno ai nuovi goleador, da padri nobili, ma poi sul campo scendono le nuove leve, le stelle del vivaio, i campioni del futuro.
Il programma delle convention 2012 dei repubblicani e dei democratici – la prima si è tenuta a Tampa in Florida e la seconda a Charlotte in North Carolina – se messo a confronto con quello delle precedenti edizioni del 2008 a St. Paul, in Minnesota, e a Denver, in Colorado, sarebbe da far studiare ai nostri partiti.
I repubblicani 2012 non hanno presentato soltanto un candidato anti-Obama diverso rispetto a quello di quattro anni fa, ma hanno mostrato un partito con altri volti, storie e racconti. Nel 2008 all'attuale candidato Romney era stato concesso uno spazietto periferico, da terza fila. Quest'anno, tutti i big di quell'edizione sono rimasti a casa: da Sarah Palin a Rudy Giuliani, da Joe Lieberman a Fred Thompson, da Carly Fiorina a Meg Whitman. Per non parlare dei grossi nomi di otto anni prima: Bush, Cheney, Schwarzenegger, Bloomberg. Magari a ogni edizione si corre il rischio di diminuire il peso specifico degli oratori, ma i debuttanti di oggi diventeranno inesorabilmente i campioni di domani.

A Tampa naturalmente ha parlato il candidato repubblicano del 2008, John McCain, per cortesia istituzionale più che altro. A Charlotte è intervenuto Bill Clinton, ma Clinton è un politico in pensione, un'icona pop, oltre che un'ancora di salvataggio per Obama in difficoltà con la working class bianca, religiosa e povera con cui invece l'ex presidente sa dialogare.
Il discorso di McCain era fitto di parole d'ordine del 2004 e al Forum di Tampa è suonato antico, non contemporaneo, di un'epoca ormai perduta. Erano passati soltanto quattro anni, a conferma che alle facce nuove corrisponde davvero un cambiamento di contenuti, di proposte e di linguaggio. Romney ha lanciato un gruppo di volti nuovi, trentenni e quarantenni poco conosciuti a livello nazionale e internazionale, ma che sono già la spina dorsale del partito: il candidato vicepresidente Paul Ryan (42 anni), il senatore Marco Rubio (40), i governatori Scott Walker (44) e Nikki Haley (41).

A Charlotte, Barack Obama ha affidato il keynote speech della convention al sindaco trentottenne di San Antonio Julian Castro, introdotto dal gemello Joaquin candidato alla Camera. Pur confermando la squadra del primo mandato, il presidente ha presentato al Paese una generazione di giovani amministratori locali, di nuove promesse, di prossimi leader. Il suo partito democratico è un'altra cosa rispetto a quello di Kerry 2004 e non è la fotocopia di quello che ha conquistato otto anni fa.
La classe dirigente americana, in sintesi, non è immobile, non è immutabile, non è immarcescibile. Cambia. La questione non è affatto generazionale, è democratica. Nel Paese di Obama e di Romney-Ryan, democraticamente il più longevo della storia dell'umanità, se qualcuno aspira alla leadership politica non scatta l'allarme degli apparati (che non ci sono), non si alzano le barricate dei vertici (che sono temporanei), non si grida alla lesa maestà (l'indipendenza dalla Corona è di oltre 200 anni fa). Gli si aprono le porte, e vinca il più bravo.

I partiti non sono proprietà privata dei leader pro tempore, non sono chiese guidate da cardinali infallibili, non sono aziende personali. Prima lo capiranno D'Alema, Berlusconi e gli altri, meglio sarà per noi.

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