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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2012 alle ore 19:12.

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Qualche mese fa sono stato in Etiopia, e ho visto le iene avanzare al crepuscolo oltre le mura medievali di Harar. Nel buio abbiamo raggiunto il terreno abbandonato sparso degli avanzi del mercato della carne; nel giro di una decina di minuti, una specie di cane giallastro e circospetto si è affacciato da una breccia nella fortificazione. Ho trattenuto il fiato, imitando una dozzina di altri turisti intorno a me; un identico pensiero ci ha attraversato la mente. Il pensiero era questo: «Che bello, se solo non ci fossero tutti questi turisti!».

Quello che ho appena descritto è un sentimento comune ai turisti: il desiderio di essere i soli turisti in un determinato posto, che è rovinato dalla presenza delle folle. Guardiamo le incisioni drammatiche dei viaggiatori dell'Ottocento, leggiamo racconti di esplorazioni coloniali, e sentiamo con nostalgia che un certo tipo di esperienza è perduto, che tutti i templi sono stati profanati, che anche nel folto della giungla, a cercare bene, potremmo trovare un gruppetto di nostri simili che sorseggia Martini dry. E questo ci dispera.

A pensarci bene, è uno strano tipo di disperazione. Da un certo punto di vista, quegli altri turisti non ci tolgono niente. Superficialmente (ma certo, il nocciolo sta qui) l'esperienza turistica è un'esperienza estetica: vado in Etiopia per vedere le chiese di Lalibela, per gustare la narcosi amarognola del chat, per respirare l'odore del fiore di Meskal che cresce a quattromila metri d'altezza. Nessuna di queste esperienze è rovinata dal fatto che altre persone la condividano con me. Si potrebbe dire il contrario: in genere siamo appagati quando i nostri giudizi estetici trovano
una conferma intorno a noi.

Eppure sfido chiunque a non provare un fremito di fastidio quando, entrando per ristorarsi nel bistrò coloniale di Awash, a dieci ore di deserto dall'ultima città, vi trovate tre comitive di francesi seduti ai tavoli a fare bisboccia – e con la macchina fotografica della stessa marca della tua. È di questo fastidio che vorrei parlare: che è, certo, una forma perversa di disagio della civiltà.

Questo fastidio è solo superficialmente collegato con un'altra sensazione, che invece non mi sembra interessante: il senso di superiorità rispetto agli altri turisti – quello che si cristallizza nel cliché di chi si innervosisce incontrando connazionali all'estero, o di chi inventa un discrimine narcisistico fra "viaggiatori" e turisti, ovviamente a danno di questi ultimi (ehi, Goethe era un turista!). Il senso di perdita di cui sto parlando lo prova anche chi non ha problemi a definirsi turista – chi ha la guida in mano e il cappellino da pescatore – e ha a che fare con la natura di un'esperienza. Istintivamente consideriamo l'esperienza turistica come estetica e conoscitiva: la leghiamo alla curiosità geografica, al fascino per le culture lontane, alla storia dell'arte e dell'architettura. Se così fosse, però, il fatto di condividerla con molti altri non ci toglierebbe nulla: una chiesa rupestre non è per questo meno indicativa di un modo di vita lontano dal nostro, né meno rilevante architettonicamente, solo perché è piena di canadesi in mezze maniche. Ma allora il problema dov'è?

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