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Questo articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2012 alle ore 09:52.

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C'erano una volta quattro serissimi insider dell'industria discografica italiana degli anni Sessanta e Settanta. Gente colta e di gusti raffinati. Di giorno qualcuno di loro scriveva testi per Massimo Ranieri, qualcuno componeva musiche per Little Tony, qualche altro regalava hit internazionali a Tom Jones, qualche altro ancora aveva una relazione con Mina.

Di notte s'incontravano e dissacravano amorevolmente quanto di serio avevano potuto fare fino a un minuto prima. Chiudendosi in uno studio di registrazione e sfornando pezzi a base di turpiloquio come «'O camionista», «Berta», «Non mi mordere il dito» e soprattutto l'incontenibile «Cornutone».

È l'anti-storia della musica leggera di casa nostra o, se preferite, la storia degli Squallor, primo gruppo rock demenziale d'Italia e in tutta probabilità prima ghost band del mondo. Perché nel 1972, due anni prima dei Residents e con un lustro di secolo d'anticipo rispetto ai Gorillaz, nei negozi di dischi di Roma, Milano e Napoli ci si chiedeva chi si nascondesse dietro lo sboccatissimo complesso autore dell'album «Troia», omerico ma non troppo. La risposta? Quattro colonne portanti della Cgd, gloriosa etichetta discografica milanese di Ladislao Sugar: il chitarrista e compositore Totò Savio, i parolieri Daniele Pace e Giancarlo Bigazzi, nonché il produttore Alfredo Cerruti, l'unico rimasto in vita di quanti presero parte all'esaltante avventura degli Squallor.

Il documentario in concorso a Napoli
La loro sfacciata arte, nell'epoca della riproducibilità su iPod, iPad e tutto il resto, sembra essere caduta un po' nel dimenticatoio. Ma a ridarle lustro ci pensa il documentario «Gli Squallor» che oggi sarà presentato in concorso al Napoli Film Festival. Porta la firma dei coniugi Michele Rossi (regista) e Carla Rinaldi (sceneggiatrice), entrambi poco più che trentenni. Lui cuneese, lei lucana, emigrati ad Amsterdam per fare del cinema una professione. «Ci siamo innamorati della potenza immaginifica dei versi degli Squallor – racconta la Rinaldi – e, un po' per gioco, abbiamo cominciato a raccogliere testimonianze e materiali». Partono nel 2007 con l'aiuto di Gianni Valentino, giornalista napoletano esperto di musica che si accolla il ruolo di produttore esecutivo. Chiamano Ciro Ippolito, regista di tanti b-movies anni Settanta che diresse gli Squallor nei film cult «Arrapaho» e «Uccelli d'Italia». Nel giro di qualche giorno si ritrovano alla corte del caustico Cerruti e di Bigazzi, con il quale condividono gli ultimi anni di vita.

Cantanti, brutta razza
L'opera non è un documentario stricto sensu. «Gli Squallor non avevano un'entità fisica, – spiega la Rinaldi – non facevano concerti, né interviste in tv. Non avevano volto, quindi non disponevamo di molto materiale filmato. Abbiamo dovuto lavorare d'immaginazione laddove non arrivavano gli archivi». Tutto parte dalla vicenda di un giovane consumatore di musica che si reca in un negozio di dischi con l'intenzione di comprare chissà che e alla fine, per colpa del carisma del commesso, si ritrova nelle mani i dischi della band demenziale. «Poi c'è Cerruti – prosegue la Rinaldi – che gioca a poker e dispensa aneddoti su quanto alla Cgd facevano di giorno come parolieri, musicisti e scopritori di talenti e quanto di notte facevano come Squallor». E il secondo lavoro completava il primo: in dischi come «Pompa», «Tromba» o «Tocca l'albicocca» finivano spesso le parodie di temi, figure e figuri della musica leggera italiana: «Noi frequentavamo i cantanti – dice Cerruti in un passaggio del film - che sono i peggiori scassa-cazzi mondiali. E ci sfogavamo contro di loro».

Un fiume di testimonianze
Per capire quanto l'italico immaginario musicale sia compenetrato dal verbo degli Squallor basta vedere la lista dei testimonial che il documentario – in uscita in dvd a febbraio con la Cni – va a scomodare: da Vinicio Capossella agli «eredi» demenziali Freak Antoni e Rocco Tanica; da Caparezza che mostra orgoglioso il vinile di «Mutando» a Renzo Arbore e Achille Bonito Oliva; dai reduci della stagione della Cgd come Mara Maionchi e Don Backy a Diego Abatantuono e Stefano Bollani. «A un certo punto – sottolinea la Rinaldi – siamo stati costretti a dire basta alle richieste di partecipazione perché il film rischiava di sfuggirci di mano». Il primo montaggio durava infatti qualcosa come due ore e mezza che, nella versione definitiva, sono scese a 85 minuti.

La coscienza del Paese
È evidente che, per chi in Italia ha fatto e continua a fare musica, gli Squallor rappresentano qualcosa d'importante. «Il loro status di gruppo fantasma – spiega Gianni Valentino – deve aver contribuito al mito. Erano invisibili e tiravano calci nello stomaco. Erano la coscienza del Paese. Spesso sporca». Leggi il testo di «Mi ha rovinato il ‘68» e non puoi non convenire: «Generazione maledetta la mia/ noi siamo ancora l'Italia che scia/ verso il domani, verso il non si sa/ perché fa rima con la libertà». Amen.

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