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Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2012 alle ore 09:46.

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«È stato fotografando e ingrandendo la superficie delle cose che stavano intorno a me che io ho cercato di scoprire quello che c'era dietro queste cose, quello che c'era al di là»: parole che sono emblema di tutto il suo cinema, queste pronunciate da Michelangelo Antonioni, che sembra farsi portavoce dei suoi personaggi, sempre pronti a non fermarsi alle apparenze.

Tra i più grandi autori della storia del nostro cinema, Antonioni avrebbe compiuto cento anni il prossimo 29 settembre se una lunga malattia non lo avesse spento il 30 luglio del 2007: giorno in cui, per coincidenza, perse la vita anche Ingmar Bergman.
Nato a Ferrara da una famiglia della media borghesia, il poliedrico regista (anche sceneggiatore, pittore e scrittore) muove i primi passi nel mondo del cinema attraverso la critica e il giornalismo: sul finire degli anni '30 inizia a scrivere articoli per il «Corriere Padano», prima di trasferirsi a Roma nel 1940 dove viene assunto dalla rivista «Cinema», nella cui redazione conosce Cesare Zavattini, futuro sceneggiatore di Vittorio De Sica e tra i massimi esponenti teorici del neorealismo.

In questi anni si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia e, dopo essere stato assistente regista di Marcel Carné per «Le visiteurs de soir», inizia a girare il suo primo cortometraggio, «Gente del Po», che verrà ultimato soltanto dopo la guerra.
I contenuti dei suoi corti documentari trovano un più ampio respiro in «Cronaca di un amore», esordio al lungometraggio datato 1950, incentrato su un adulterio ambientato nel mondo dell'alta borghesia.

I tre lavori immediatamente successivi ottengono buoni giudizi critici, ma scarsi consensi popolari: «I vinti» del 1952, sulla violenza del mondo giovanile post-bellico, «La signora senza camelie» del 1953, incentrato sulle ipocrisie che regolano l'industria cinematografica, e «Le amiche» del 1955, tratto da un romanzo di Cesare Pavese.
La ricerca che Antonioni inizia con questi primi lavori trova pieno compimento ne «Il grido» del 1957: la pellicola, che ebbe un grave insuccesso commerciale, concentra l'attenzione su un singolo individuo, alienato in una società che sente estranea e vittima di continue crisi identitarie.

Tale percorso proseguirà con forza nei quattro film successivi, conosciuti sotto l'etichetta di "tetralogia esistenziale", con protagonista l'allora compagna Monica Vitti: straordinario il successo de «L'avventura» del 1960, dove la scomparsa di una donna non dà vita a un'indagine per risolvere il mistero, ma a un'analisi sull'incomunicabilità tra gli esseri umani. Sulla stessa linea si giocano «La notte» del 1961, con Jeanne Moreau e Marcello Mastroianni insieme alla Vitti, e «L'eclisse» del 1962, inquietante riflessione sull'affievolirsi improvviso dei sentimenti umani.
La tetralogia si conclude con «Il deserto rosso» del 1964, dove Antonioni utilizzerà per la prima volta il colore.

Dopo questi successi, che lo portano a essere considerato uno dei pionieri del cinema moderno, intraprenderà una decennale avventura all'estero girando tre film in lingua inglese, prodotti da Carlo Ponti. Il più importante è «Blow-up» del 1966, il suo capolavoro assoluto giocato tra il sottile filo realtà-finzione, a cui faranno seguito «Zabriskie Point» del 1970, violenta metafora della ribellione giovanile in atto, e «Professione: reporter» del 1975, sul rapporto tra capitalismo e terzo mondo con protagonista uno straordinario Jack Nicholson.

Dopo sei anni di silenzio creativo, gira prima «I misteri di Oberwald» del 1981, un film sperimentale per la televisione, ancora con Monica Vitti, e poi «Identificazione di una donna» del 1982, dove mette in risalto una nuova crisi sentimentale.
In mezzo a tanti progetti, nel 1985, viene colpito da un ictus che lo priva della parola e lo costringe su una sedia a rotelle.

Dopo un periodo d'inattività forzata, nel 1989 riprende a girare alcuni brevi documentari, prima di tornare al cinema di finzione con «Al di là delle nuvole», il suo ultimo lungometraggio del 1995: assistito da Wim Wenders, suo grande estimatore, Antonioni traduce in immagini quattro storie tratte dal suo libro «Quel bowling sul Tevere».
Nello stesso anno viene premiato con l'Oscar alla carriera, ultimo di una lunga serie di prestigiosi riconoscimenti ottenuti nel corso degli anni: dall'Orso d'oro a Berlino per la «La notte» al Leone d'Oro a Venezia per «Il deserto rosso».

Nel 2004 realizza i suoi due ultimi cortometraggi: il toccante «Lo sguardo di Michelangelo», dedicato all'opera di Michelangelo Buonarroti, e «Il filo pericoloso delle cose», inserito nel film collettivo a episodi «Eros».
Per celebrarlo nel centenario della nascita, la città di Ferrara gli dedicherà una mostra dal titolo «Lo sguardo di Michelangelo. Antonioni e le arti», in programma a Palazzo dei Diamanti dal prossimo 10 marzo, che ripercorrerà la parabola creativa del regista attraverso l'accostamento dei suoi lavori a opere di altri artisti e cineasti, in un inedito dialogo tra film, pittura, letteratura e fotografia.

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