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Questo articolo è stato pubblicato il 02 ottobre 2012 alle ore 15:56.

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«Ho impiegato trentott'anni per arrivare a creare "Desh"». Cioè gli anni della sua età anagrafica. Scherza l'anglo-bengalese Akram Khan. Ma neanche tanto. Perché il disagio e la paura di doversi confrontare con la sua "Patria", con le sue radici, con il conflittuale rapporto genitoriale, lo ha tenuto lontano dal desiderio sempre coltivato di tradurre queste
tematiche con e sul suo corpo di danzatore.

L'idea ha finalmente preso consistenza nel 2005. E, dopo aver ancora rimandato per dedicarsi ad una trilogia di duetti (con Sylvie Guillem, con Sidi Larbi Cherqaoui, con Juliette Binoche) che lo hanno portato in giro per il mondo, eccolo ora all'inevitabile appuntamento. Pensava di non farcela fisicamente. Ed

invece, per novanta minuti, libera tutta la sua esplosiva, e controllata,energia tenendo da solo la scena. Il risultato è uno spettacolo fortemente comunicativo, che trasuda emozioni, magia. Un viaggio intimo e personale nella memoria, alla ricerca di un'identita
multiculturale attraverso il linguaggio del corpo in movimento e della narrazione verbale. Se a questa affida ricordi e dialoghi, alla coreografia lascia l'evocazione di un mondo geografico e interiore, lontano e presente, in una costante tensione fra terra e aria. Ovvero tra due diverse concezioni della danza. Quella tradizionale orientale, coi piedi ben piantati al suolo; e quella classica occidentale, tesa all'elevazione.

Ebbene, Khan – nato a Londra da genitori musulmani originari del Bangladesh e cresciuto a contatto con la cultura e l'arte moderna – ha innestato l'antica danza kathak, alla quale si è formato fin da piccolo, col vocabolario contemporaneo, comprendente le dinamiche spigolose della break-dance e quelle severe delle arti marziali (per culto verso Michael Jackson e Bruce Lee). Questa fusione è diventata la sua cifra espressiva. Che ritroviamo anche in "Desh".

Intrecciando storie dell'infanzia, racconti mitologici e vicende collettive di un popolo, Khan compone un affresco onirico e poetico al quale contribuiscono le luci trascoloranti di Michael Hulls, e le installazioni del visual designer Tim Yip (nella sequenza finale una cascata di nastri di stoffa bianca – foresta rovesciata o pioggia monsonica – dentro cui danza a testa in giù mentre l'impalcatura si solleva). In questa storia di tre generazioni – il padre, lui, la nipotina - sui legami indelebili della famiglia e della cultura, Khan adotta la prospettiva di lui bambino reso presente nel disegno animato che si materializza sul grande schermo trasparente dove scorrono disegni di foreste incantate e animali coi quali interagisce Khan nel suo racconto visualizzato; dove si animano sagome umane ed eventi sociali. La comparsa di una sedia monumentale con accanto un'altra piccolissima dà luogo ad uno struggente e divertente duetto con se stesso in età diverse, trasferendosi dall'una all'altra.

Ed è superbo nella danza fatta di spirali vorticose, di sguscianti allungamenti di braccia e gambe a terra, di mobilità del busto, del collo e della testa. Con questa, sul cui cranio rasato vi ha dipinto occhi e bocca, tenendola e accompagnandola con le mani, dà forma e voce ad un anziano sopravvissuto cuoco brutalizzato dai soldati pakistani durante la guerra del 1971. Perché di questo parla anche "Desh". Così, dall'inizio della performance col suo arrivo a Dhaka, muovendosi su una colonna sonora di traffico frenetico, di voci urbane, e saltando al villaggio del padre, si giunge al tragico conflitto storico. Khan l'ha vissuto solo nel racconto del padre, ma le ferite gli vivono dentro. Da qui la necessita' di mostrarle, trasfigurate in una danza vicina al capolavoro.

"Desh", coreografia e interpretazione di Akram Khan. Al Romaeuropa Festival.

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