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Questo articolo è stato pubblicato il 07 ottobre 2012 alle ore 08:18.

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È materia, malgrado tutto, ancora scottante quella maneggiata dalla mostra di Palazzo Strozzi sulle arti in Italia negli anni Trenta. Scottante malgrado il precoce impegno a favore della migliore arte del tempo profuso da Carlo Ludovico Ragghianti già nel 1967 – quando ancora gli effetti e i ricordi del fascismo erano vivi e brucianti – con la grande mostra Arte moderna in Italia 1915-1935, nella quale, proprio in questo palazzo, dopo una più che ventennale damnatio memoriae si restituiva la dignità che meritavano ad alcuni dei protagonisti di quella stagione. Quindici anni dopo la rassegna non meno imponente ordinata da Renato Barilli, Luciano Caramel, Enrico Crispolti e Vittorio Fagone in Palazzo Reale a Milano rilesse proprio quel decennio senza pregiudizi, aprendo la strada ai numerosi studi successivi. Eppure, fuori dalla cerchia degli specialisti, è ancora sentir ripetere che l'arte italiana degli anni Trenta fu asfittica e provinciale, "autarchica" e bolsa.
Molta certamente lo fu (come quella di chi avrebbe partecipato al Premio Cremona, istituito nel 1939 da Roberto Farinacci, che dettava agli artisti temi imbarazzanti per piaggeria come "Ascoltazione alla radio di un discorso del Duce") ma moltissima fu di ben diversa statura. A provarlo è ora Antonello Negri, affiancato da Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Giorgio Zanchetti e Susanna Ragionieri (lei per la vivace realtà di Firenze), con questa mostra bella e rigorosa, ovviamente molto più asciutta di quelle ma non meno persuasiva, fondata com'è su una minuziosa ricognizione della critica del tempo e su sole opere che ebbero allora grande notorietà, per essere state esposte nella vetrina internazionale della Biennale di Venezia o alla Quadriennale di Roma (istituita nel 1931 per esibire la migliore arte nazionale) o, ancora, per essersi viste nelle mostre promosse dai Sindacati artistici regionali e provinciali, che provvedevano a una prima, capillare scrematura degli emergenti.
Perché se negli anni Trenta il regime mostrò sul fronte politico il suo volto più fosco, nella politica delle arti continuò invece a mostrarsi "liberale", lasciando il campo aperto a molti e diversi linguaggi; almeno fino al 1938, quando le leggi razziali si riverberarono anche sull'arte d'avanguardia, messa all'indice perché "bolscevizzante e giudaica". Non solo, ma favorì gli artisti di ogni schieramento con mostre, premi e acquisizioni. Che poi la diffusione dei Sindacati consentisse un controllo minuzioso sugli artisti e che attraverso l'arte il potere coltivasse fini di propaganda, non apparve allora così grave. Anche perché si offriva visibilità pure a giovani "alternativi" come Guttuso e Birolli, Fontana e Sassu, ai quali, seppure esponendoli in una palazzina a parte («come in tempo d'epidemia» ironizzava l'ostile Ugo Ojetti), si dava spazio in un evento prestigioso come la I Mostra del Sindacato nazionale fascista di Belle Arti, tenuta proprio a Firenze nel 1933.
La mostra di Palazzo Strozzi affronta dunque quel decennio mettendo in luce in ogni sezione i temi sui quali il dibattito era più acceso. Il primo (la suddivisione dell'arte in scuole e centri dominanti) era un'eredità dell'800 ma era ancora più che attuale: ecco allora Milano con i capolavori "novecentisti" dei grandissimi Sironi e Arturo Martini, di Carrà, Funi, Adolfo Wildt (schiaccianti sulla gracile pittura dei "chiaristi" e di Garbari, della cerchia antagonista di Edoardo Persico). C'è poi Firenze con Soffici e Rosai; c'è Roma, con il mono immobile di Donghi (sua l'immagine-guida della mostra) e c'è Torino, con Casorati e i "Sei di Torino", poi allievi ribelli passati sotto l'ala di Persico ("piemontesi impariginiti", storceva il naso la critica ufficiale). E, defilata ma vitale, c'è Trieste, con artisti sorprendenti come Nathan, Bolaffio, Sbisà.
Sono però "i giovani e gli irrealisti" (cioè astrattisti) a mostrare più di tutti la libertà di linguaggio di quegli anni tutt'altro che monolitici: figurativi ma apertamente antinovecentisti Sassu, Birolli, il primo Fontana, i "romani" Gentilini, Cagli, Guttuso e Pirandello, e con loro la Scuola di via Cavour (splendido lo Scipione in mostra); astratti gli altri dai futuristi della seconda generazione – Prampolini su tutti – agli astrattisti Licini e Radice, patrocinati con gran successo dalla milanese galleria del Milione).
A smentire l'isolamento culturale lungamente addebitato alla nostra arte del tempo sono gli "artisti in viaggio" (gli "Italiens de Paris" e il "berlinese" Vinicio Paladini, qui con un'opera affascinante) ma è nella sezione sull'"arte pubblica", quella delle grandi composizioni murali dai fini educativi e sociali, che si tocca il tema allora più dibattuto. La Triennale milanese del 1933 ne diventò la portabandiera, come lo fu per il design, un settore che prova lo sforzo di modernizzazione compiuto dall'Italia degli anni 30, con la nuova estetica rigorosa ed essenziale e i nuovi materiali, funzionali alla riproduzione degli arredi in grande scala, qui messi a confronto con gli oggetti preziosi di Gio Ponti e di Fontana.
Chiude il percorso Firenze, vera officina culturale nell'arte, nella poesia e nella musica, mentre l'architettura razionalista delle "città di fondazione" coloniali (in foto inedite del Touring Club) e gli interni italiani più innovativi, pubblicati da Domus, sono riletti in un touchscreen da non perdere.
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Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo, Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 27 gennaio 2013. Catalogo Giunti. Info: www.palazzostrozzi.com

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