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Questo articolo è stato pubblicato il 14 ottobre 2012 alle ore 08:12.

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Sono stati i protagonisti di un sogno. Ma sono diventati un incubo. Non perché ritornino ma perché, da noi, non sono mai andati via, e adesso si ripresentano con un film, On the Road, del brasiliano Walter Salles, che è "impossibile" e prolisso allo stesso tempo. Negli Stati Uniti i personaggi di Jack Kerouac e alcuni libri dei suoi accoliti – i beat – hanno avuto modo di andare e venire più volte negli ultimi cinquant'anni cavalcando le onde della moda. In Italia non sono mai stati fuori catalogo. Li ha tenuti in vita soprattutto l'opera di Fernanda Pivano che li conosceva bene e che di un paio di loro era anche coetanea. E chissà quanta gente, a forza di sentirli nominare, ha finito per credere che i beat fossero artisti importanti. Ma non lo sono stati.
Hanno aperto la strada a un cambiamento epocale nella storia del costume, questo sì; e, già adulti, hanno provato a mettere in pratica, condividendole, le fantasie proprie dell'adolescenza. Droghe, musica, sesso, e un'idea della libertà – cosmica, pulsante – che non è di questo mondo ma "delle beate genti". Un altrove che fin troppo spesso raggiungevano addormentandosi storditi.
Più che di Nietzsche, erano gli eredi un po' sghembi dello spiritualismo trascendentalista di Emerson e poi di Whitman, dei maestri orientali e di quelle forme di sciamanesimo che portano alla conoscenza del divino eludendo la parola, il Logos. Ma erano affascinati, ciascuno di loro, dall'idea di scrivere un grande libro profetico, e tanto per cominciare si imbottivano di alcol e amfetamine per sollevarsi da terra e purificare quelle che Aldous Huxley, citando William Blake, aveva chiamato «le porte della percezione». Il luogo dell'esperienza oltre il quale tutto si rivela per quello che è. Infinito.
Ma fu la giovinezza la vera droga dei beat. L'irruenza, lo sventato ardimento di chi agisce senza curarsi delle conseguenze. E se il guardare le cose per quello che sono in sé, trascurando i rapporti di causa ed effetto, è proprio della mente mistica, ebbene, a loro modo, i beat furono "mistici". Erano politicamente anarchici, per il gusto infantile della trasgressione, e tutto sommato furono dei cattivi maestri.
Come scrittori non avevano molto da dire ma lo dissero con enfasi. Erano persuasi che la spontaneità fosse la forma suprema di sincerità e Kerouac scrisse il suo "novissimo testamento" in tre settimane su di un rotolone di carta da disegno così da non dover interrompere il ritmo sostituendo i fogli nella macchina per scrivere. Era il 1951, e le immagini di quel fatale inizio concludono il film di Walter Salles. Una ricostruzione documentaria che si trascina per una durata interminabile e cerca di suggerire l'incanto di una stagione irripetibile attraverso un uso anticato del colore e continui primi piani dei protagonisti (Sam Riley, Garrett Hedlund e Kirsten Stewart, nella parte, rispettivamente, di Sal Paradise, Dean Moriarty e Marylou) che dovrebbero avvicinarci ai loro pensieri.
E come il romanzo non ha una trama, il film ci porta a spasso lasciando per buona parte insoddisfatta la nostra curiosità per il paesaggio dell'America, che è l'ineludibile presupposto del racconto. La giovanile testimonianza del sogno di libertà da tutto – orari, ambizioni e responsabilità –, che animava i coraggiosi ribelli dell'immediato secondo dopoguerra, l'abbiamo vista ripetuta in seguito fin troppe volte per non giustificare l'esiguo numero di spettatori (sette) nella sala in cui ho visto il film.
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