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Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2012 alle ore 08:03.

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Anthony Braxton. Foto CorbisAnthony Braxton. Foto Corbis

Ci sarebbero molte cose da riferire a proposito del cinquantaseiesimo Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Venezia, concentrato quest'anno sugli orientamenti estremi della musica d'oggi, il massimalismo e il minimalismo, da cui l'insegna «+Extreme–» o anche «MinMax». Ma corre l'obbligo di scrivere subito del concerto finale di «Anthony Braxton 12+1Tet», rinviando ulteriori considerazioni ad altre eventuali occasioni. Anthony Braxton, maestro dei sassofoni e dei clarinetti, compositore, direttore e pluristrumentista, docente e teorico nato a Chicago nel 1945, appartiene senza dubbio alla categoria dei massimalisti. Per chi non lo sapesse, egli fa riferimento ad Arnold Schoenberg, Iannis Xenakis, John Cage, Karlheinz Stockhausen, Gyorgy Ligeti come a Charlie Parker, Eric Dolphy, Paul Desmond, Lee Konitz, John Coltrane e Thelonious Monk, ma con una differenza sostanziale rispetto ad altri jazzisti contemporanei «aperti»: non è lui che fa venire verso di sé (e verso la musica afro-americana) la musica europea accademica, poi riscrivendola e lacerandola. Braxton compie il percorso inverso facendosi riconoscere – e volendo farsi riconoscere – anche sul piano della scrittura musicale occidentale.

Provvisto di grandi doti musicali innate presto arricchite da studi particolarmente severi, Braxton aderisce nel 1966 all'Aacm (Association for the Advancement of Creative Musicians) appena fondata a Chicago dal compositore e pianista Muhal Richard Abrams. L'anno seguente Abrams, impressionato dalle qualità del giovane strumentista, lo vuole con sé per la registrazione del suo long playing Levels And Degrees of Light. E' la prima volta di Braxton in studio d'incisione. Dal 1968 registrerà quasi sempre a proprio nome realizzando una discografia sconfinata (perfino dieci dischi in un anno) che documenta la sua ricerca d'avanguardia in ogni direzione con i gruppi più diversi. I punti di partenza sono Three Compositions of New Jazz con il violinista Leroy Jenkins e il trombettista Leo Smith, e un audace e bellissimo For Alto dove suona il sax alto in totale solitudine. Nei concerti tenuti in tutto il mondo ha riservato talvolta clamorose sorprese, come nel 2003 a Bergamo dove suonò in quartetto un piacevole jazz tradizionale, o altrove quando si esibì improvvisamente al pianoforte tenendosi però lontano dalle preparazioni e dai silenzi di John Cage.

A Venezia si presenta alla testa di dodici musicisti, come dice il nome 12+1, dei quali sei sono donne ed è già un bel vedere. L'orchestra si dispone in un significante anfiteatro con le percussioni al centro. C'è un vicedirettore, il trombettista Taylor Ho Bynum, che quando occorre gesticola ordini a mani nude in modo che la musica sembra scaturire dalle sue dita. Braxton dirige con calma imperiosa e ha con sé il solito campionario di strumenti. Gli altri undici protagonisti, che salvo alcuni casi suonano anch'essi più di uno strumento, sono Ingrid Lubrock sax alto, Andrew Raffo Dewar sax soprano, James Fei sax alto, Sarah Schoenbeck fagotto (talvolta con un'inedita sordina), Reut Reger trombone, Mary Halvorson chitarra, Jessica Pavone violino, Erica Dicker violino baritono, Jay Rozen tuba, Carl Testa contrabbasso e clarone, Aaron Siegel percussioni e vibrafono.

C'è una breve esposizione tematica, un "nucleo generativo iniziale" sul quale si fonda tutto il resto, settanta minuti di suite senza soluzioni di continuità: si chiama «355+» secondo una delle consuetudini dell'autore (ve ne sono altre) di attribuire una numerazione progressiva alle sue partiture. Braxton impone con apparente discrezione la sua attività preordinante di compositore, per cui c'è una complessa dialettica fra scrittura (molta) e improvvisazione (poca); vale a dire che non ci sono veri e propri assoli ma soltanto brevi break improvvisativi riconoscibili fra i suoni collettivi. Il pubblico del magnifico Teatro alle Tese (tutto esaurito) non può rischiare un solo applauso a scena aperta come si usa nel jazz e nei derivati, ed erompe in un entusiasmo (quasi) unanime soltanto alla fine, con ovvia esclusione di qualsiasi bis. I non iniziati si accorgono in corso d'opera che i dodici musicisti lavorano in tre gruppi relativamente autonomi di quattro ciascuno, lasciando agli ascoltatori la libertà – questa sì – di concentrarsi su questo o quel particolare, oppure (a scelta) sull'assieme. Nel programma di sala della serata, al quale ho già rubato un paio di accenni, è opportunamente sottolineato che il 12+1Tet ritorna nel solco del progetto Ghost Trance Music, basato su lunghi dialoghi compositivi-improvvisativi ben noti a chi abbia seguito Braxton con assiduità. In più, è sembrato ad alcuni esperti che «355+» contenga una sorta di ricapitolazione di numerose iniziative braxtoniane. Comunque sia, il minutaggio dell'opera sembra alludere alla sua prossima apparizione in cd, e quindi ci sarà la possibilità di riascoltarla.

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