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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2012 alle ore 08:11.

OPORTO - L'ente portoghese del turismo si raccomanda di citare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo servizio: Taylor's, Ferreira, Sandeman, Calèm, la Casa Da Música, Castas e Pratos, D.Tonho, Quarentae4, Vintage House e Hotel Infante Sagres (d'ora in poi Gli Sponsor). Ci togliamo subito il pensiero, ma non il dubbio che la crisi abbia indurito ancora di più l'anima di un Paese notoriamente difficile.

Al nostro arrivo a Oporto veniamo accolti da Paulo, un sosia di Roman Polanski che a bordo della sua Mercedes extralusso («In realtà è ancora della banca», sottolinea) ci farà da guida 24/24 nel nostro viaggio lungo il fiume Douro fin nel cuore delle quintas, le tenute a gestione familiare in cui nasce il vino porto. La città è una collezione di appartamenti en alquiler e lo stupore panoramico previsto da un barocco endemico è compromesso dai numerosi palazzi vuoti e cadenti. Le zone storicamente più abbienti fanno ormai a gara per decadenza con la Ribeira, un quartiere che al suo aspetto malandato ma pittoresco deve il riconoscimento di patrimonio dell'umanità Unesco, ma in cui ci sconsigliano di avventurarci dopo il tramonto.

Con un Pil costantemente in calo e il 15 per cento di disoccupati, quel che ci chiediamo è se l'oro rosso portoghese sia ancora in grado di risollevare le sorti dell'economia nazionale. Attraversando la vasta regione del Vinho Verde apprendiamo che in realtà i maggiori introiti vengono dal consumo interno dell'omonimo vino da tavola, mentre produzione e distribuzione del suo più celebre parente da meditazione sono in larga parte nelle mani di proprietari stranieri, per lo più inglesi. La Grande Occasione Perduta risale al 1865, quando la fillossera della vite (Daktulosphaira vitifoliae) rase al suolo praticamente tutti i ceppi autoctoni europei. Con spietata lungimiranza gli investitori d'Oltremanica, che apprezzavano la dolcezza del porto fin dal 1670 – quando il brandy fu aggiunto per la prima volta al vino portoghese per prolungarne la conservazione durante i lunghi trasferimenti in nave – ne approfittarono per comprare a prezzi bassissimi tutto il terreno possibile. Oggi le vigne che tappezzano le coste di tutto il Douro portoghese sono distinte in sette livelli di qualità (da A a F) in base a una serie di complicatissimi parametri, e per la maggior parte delle piccole aziende autoctone quelle più pregiate sono fuori portata.

Dopo una rapida sosta a Sabrosa in visita alla casa natale di quello che qui chiamano Fernão de Magalhães, arriviamo al brutto ma strategico approdo di Pinhão, dove l'omonimo affluente si getta nel Douro, e veniamo imbarcati su un traghetto che tre ponti e una diga più tardi ci scarica a Peso da Régua. La geografia insegna che tutta questa valle gode di un microclima perfetto per la coltivazione della vite, con estati afose e inverni miti. Ma il vero segreto è nel terreno, dove lo scisto accumula calore durante il giorno e lo restituisce di notte, tenendo le radici sostanzialmente a temperatura costante. Così ogni centimetro dei pendii è coltivato. E soprattutto "brandizzato": dalle grandi pubblicità che campeggiano tra i vigneti risuona inesorabile l'ingerenza dell'investitore forestiero. Ma per un'azienda portoghese non produrre porto sarebbe un suicidio commerciale, e accanto alle etichette dei vari bianchi e rossi tutti ne hanno almeno una di vino liquoroso, per il buon nome della famiglia. È quello che ci rivela Catarina, erede della Quinta da Pacheca. Modi schietti, vestiti comodi e una vaga somiglianza con Kathy Bates, ci aspetta nel raffinato bed & breakfast ricavato da un'ala dismessa della quinta. «Il problema è politico – incalza –. Per quelli al potere il Portogallo è solo Lisbona, Algarve e Madeira. Nessuno conosce il Douro. Non esiste nemmeno una vera e propria "strada del porto". E così ognuno si arrangia come può. Io ho dovuto spostare il cartello delle indicazioni turistiche con le mie mani, perché fosse visibile dalla strada». Ci lasciamo accompagnare in un giro tra le vigne, ma al momento non ci lavora nessuno. Un tempo era fatto tutto con le mani e con i piedi, e pare che mentre pestavano l'uva nei lagares durante la cosiddetta "corte", i lavoratori cantassero al ritmo di una banda musicale. «È difficile vendere qualcosa che non esiste. Oggi è tutto affidato agli stagionali, soprattutto rumeni che non parlano nemmeno una parola di portoghese. Figuriamoci cantare canzoni». Così la pragmatica Catarina ha deciso di puntare su Sauvignon e Gewürztraminer.

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