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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2012 alle ore 08:11.

Di tutt'altro avviso Gil, della Quinta Casa Amarela, per cui gli anni appena trascorsi sono stati davvero buoni. Gil, che ricorda un po' Sam Elliott, ha solo tre collaboratori, che durante la vendemmia diventano però anche quaranta. Il lavoro è ancora artigianale e l'unica concessione al progresso sono i camion per il trasporto, che hanno sostituito i treni che a loro volta avevano soppiantato le barche. Pur appartenendo alla Kopke, l'azienda che vanta il brand più antico (1638), la Quinta São Luiz è invece all'avanguardia. Qui tutto odora di asettico. La guida, una controfigura di Shelley Duvall, è freddina e sbrigativa, ma in compenso la vista sul Douro è la migliore che abbiamo avuto finora.

Molto più interessante la Quinta da Avessada, sull'altopiano di Alto Trás-os-Montes. A dispetto dello scetticismo dei suoi colleghi, l'allampanato e ciarliero Luis, ritratto sputato di Peter Lorre da giovane, sta organizzando un network indipendente di produttori locali. «L'unica soluzione è spalleggiarsi tra noi», dice con fervore. «Farci pubblicità a vicenda e costruire una rete di conoscenze in cui "intrappolare" i visitatori e costringerli a restare nella valle più tempo di quel che avevano programmato». Il suo contributo alla causa è surreale ma evidentemente appassionato: dopo aver evidenziato i vantaggi dell'altopiano («L'unico della regione, perfetto per il Moscatel») ci invita all'interno del museo da lui stesso allestito in un vecchio magazzino inutilizzato. Pochi secondi di perplessità e a sorpresa comincia la proiezione di un video documentario, in sostanza una successione di foto montate con evidente inesperienza al computer sulla colonna sonora di Braveheart. La voce narrante è quella dello stesso Luis che, lo sguardo compiaciuto e sinceramente commosso, sussurra in diretta in un microfono a due metri da noi. Un occhio di bue si accende allora sui lagares in pietra, dove tre manichini robot vestiti con cappelli di paglia, camicie a quadri e pantaloni al ginocchio avanzano in linea cantando e ruotando la testa al ritmo di una canzone popolare. Luis è in visibilio. Saranno gli svariati cicchettini di vino accumulati durante il viaggio, ma anche noi tratteniamo a stento le risate. Prima di andar via c'è ancora tempo per un fuori programma. Guidati da Luis alla ricerca di un'inafferrabile e in fin dei conti inesistente trattoria "tipica", facciamo irruzione nel retrobottega della panetteria di Favaios. È qui che conosciamo Rosario, una donna robusta e vivace di età indefinibile che non assomiglia a nessuno e che, dopo aver preparato l'impasto da infornare durante la notte, ci parla di quando negli anni Sessanta lavorava come governante a casa di António de Oliveira Salazar, per poi invitarci a mangiare la sua zuppa e a dormire da lei. Rimpiangeremo a lungo di aver resistito alla tentazione di essere serviti come dittatori: è lunedì e in paese è tutto chiuso. Finiamo all'ostello della gioventù a mangiare fave fresche, fichi con formaggio e il caratteristico e acquoso arroz de peixe. Ai dipendenti è però riservato il tradizionale piatto della sera: carne in padella coperta con prosciutto, uova e funghi. «Perché prima di andare a letto – spiega la cuoca – il buon portoghese deve avere la pancia piena».

Per essere un Paese sull'orlo della bancarotta il Portogallo ci sembra fin troppo rilassato, complice sicuramente la bellezza del paesaggio e la dolcezza dei suoi frutti. «Ma tutto si sta modernizzando – assicura Paulo –. Ora a Oporto abbiamo anche l'aperitivo. Non saremo disinibiti come gli spagnoli, ma ci stiamo lavorando». C'è da chiedersi se davvero basterà qualche bicchierino in più a superare la storica inibizione commerciale dei portoghesi e ad affrontare il duro esame della crisi. Per ora non c'è che da brindare à sua saúde.

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