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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2012 alle ore 08:12.

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«Quando si parla di ortomercato si finisce sempre col parlare di 'ndrangheta, mafia, camorra, lavoro nero, evasione fiscale e tutto quello che gli va dietro. Eppure quando l'Antimafia ha fatto le sue indagini qui a Milano non ha trovato una sola azienda di grossisti collusa con la criminalità organizzata. E allora perché il mercato di frutta e verdura cittadino continua a essere sinonimo di negatività?».

Alberto Albuzza oggi ha il diavolo in corpo. Ce l'ha con un cronista, l'ennesimo, che ha dipinto l'ortomercato come una giungla di malaffare popolata da personaggi torbidi. Si sbraccia, livido di rabbia, mentre al telefono contratta i prezzi di una partita di frutta e verdura. E se la prende con chi accusa i grossisti di gonfiare i prezzi e di affamare i consumatori, citando le parole poco gradite del ministro delle Politiche agricole Mario Catania che questa estate ha fatto un appello per eliminare «l'intermediazione parassitaria». È furibondo anche con il Comune di Milano, proprietario del 99,8 per cento della società di gestione del mercato, Sogemi, che prima annuncia di rimodernizzare le strutture, ormai vecchie e fatiscenti, e promette di investire ma poi non sgancia un euro perché la nuova giunta Pisapia scopre di non avere soldi in cassa. Se ieri il governo Moratti avrebbe voluto cedere l'area a Salvatore Ligresti per un progetto di sviluppo immobiliare, quando l'imprenditore di Paternò era ancora potentissimo, oggi si pensa a una privatizzazione del mercato con due newco: una per la gestione immobiliare, magari da affidare a un fondo di investimento, e l'altra dedicata all'operatività del mercato, partecipata da grossisti e Comune. «Accuse, insulti, operazioni immobiliari, incertezze politiche. Attorno al mercato c'è un gran caos». Eppure Alberto da trent'anni si sveglia, sei giorni su sette, alle due di mattina. Con il freddo che ti divora le ossa d'inverno, e l'afa d'estate che inzuppa i vestiti e manda alla malora le merci. Certo, oggi guida una società che fattura la bellezza di 20 milioni di euro, impiega una trentina di dipendenti e presiede l'associazione dei grossisti milanesi. Ma è sempre un lavorare controvento, con tutti contro tutti. Nella città dentro la città che è l'ortomercato di Milano, 800mila metri quadri di superficie, si accendono le luci ogni notte quando tutti gli altri vanno a dormire. Arrivano i camion carichi di frutta e verdura da tutta Italia e anche dall'estero. E in un batter di ciglia l'universo di via Lombroso si popola di novemila persone.

I facchini sfrecciano sui muletti da una parte all'altra come in una portaerei. Quel bancale finirà al mercato rionale, l'altro al negozio o all'ambulante, molti alla grande distribuzione, alcuni anche all'estero. Perché il più grande mercato italiano arriva a esportare il 30 per cento delle merci che qui vi transitano. «Mio nonno e mio padre lavoravano con i bancali. Io stesso lavoro ancora con i bancali, quando servirebbero strumenti più moderni come portapallet e ribalte. Siamo la centrale di smistamento dell'agricoltura italiana, eppure nulla si muove. Dal punto di vista logistico non siamo cresciuti: colpa di una cattiva gestione del mercato. E anche colpa nostra, di noi grossisti che abbiamo vissuto a lungo in modo conflittuale». Ogni giorno l'Italia punta lo sguardo su Piazza Affari, sulla Borsa di Milano, le sue contrattazioni, i principali listini azionari. Eppure il mercato, quello autentico, sostanzialmente immutato nei secoli e nato sulle fondamenta dei mercati annonari romani, si trova sulla strada che dalla città porta all'aeroporto di Linate. È la prima piazza ortofrutticola italiana, con 2,5 miliardi di euro di giro d'affari annuale, un milione di tonnellate movimentate, 177 grossisti presenti, 3.500 addetti e 45mila occupati dell'indotto tra produttori agricoli e negozianti. Da Milano passa più del 10 per cento dell'agricoltura italiana. In nessun altro Paese europeo ci sono piazze così grandi e operative. Basti pensare che in Spagna o in Francia solo il 20 per cento della frutta e verdura consumate dalle famiglie transita dai mercati generali. Nel nostro Paese la quota supera il 50 per cento del totale della produzione che viene gestita e commercializzata da 150 mercati e finisce sulle nostre tavole. Il resto arriva dalla grande distribuzione. «Sono numeri, quelli italiani, che garantiscono la freschezza dei prodotti.

E realizzano un'importante leva per l'export della nostra agricoltura», spiega Ottavio Guala, presidente uscente di Fedagromercati, l'associazione dei mercati italiani, e ora a capo della rete dei grossisti nazionale. Nel corso dell'ultimo decennio qualcuno ha dato per spacciati i mercati generali. La grande distribuzione si è attrezzata con piattaforme di acquisto proprie, comprando direttamente dai contadini; i piccoli negozi hanno abbassato le saracinesche e sono aumentati i gruppi di acquisito, che si rivolgono autonomamente ai produttori. «C'è stato un periodo di forte contrapposizione – ricorda Guala – ma ora la grande distribuzione è un nostro cliente. Certo il business è diverso oggi e le nostre aziende si sono dovute adattare ai cambiamenti. Tuttavia il mercato non scomparirà mai. L'Italia è un Paese particolare. Abbiamo una miriade di varietà di prodotti ortofrutticoli. È impensabile avere una Borsa delle commodities sulle materie prime agricole, come succede in America. Da noi un'arancia non si può quotare perché ci sono mille tipi di arance. È questo il nostro duro lavoro quotidiano». Ma non c'è solo la fatica tra bancali e muletti che si trascina ogni notte. «Come in tutte le grandi città – dice Mario Losi, responsabile delle relazioni esterne di Sogemi – ci sono brave persone e anche qualche balordo». Lo sa bene il presidente di Sogemi, Gigi Predeval che oggi deve girare sotto scorta. Il suo impegno a rendere più efficiente e trasparente tutta la filiera del facchinaggio (oggi si entra al lavoro timbrando con le impronte digitali), gli è costata una minaccia di morte. Da prendere tremendamente sul serio.

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