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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2012 alle ore 08:02.

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Non penso che Gaetano Salvemini, quando diceva che bastava un italiano «fatto diversamente», pensasse profeticamente a Matteo Renzi e Christian Rocca. Loro invece si sono sentiti chiamati in causa, e sono scesi in campo col cartellone: We are the 1%.

Però non si sono coordinati benissimo. Difatti, ha un bel dire Renzi che i quarantenni italiani non hanno saputo raccontarsi come una comunità orgogliosa... È lo stesso Rocca il primo ad affossare il morale dell'Italia a suon di infografiche. È che è troppo preso ad appuntarsi sul petto le pins del sogno americano. Sogno neanche tanto difficile, quando hai un pied-à-terre a Manhattan.

Avvolti nella cover più stellata, strisciata, vintage e fica della storia della grafica, i ragazzi di IL se la prendono ancora con l'Italia, che – insistono – si sente «in diritto di fare schifo». Tutti, dai traffichini festaioli delle regioni, ai poveri milanesi che si rilassano e fanno l'happy hour perché non sono chic come Filippo Bologna… Eccolo, caro Renzi, uno dei tuoi coetanei per cui vorresti cambiare l'Italia: contrario al nuovo, nostalgico per partito preso, restauratore di cicchetti e patatine, che dice di volere un figlio ma, nel tempo che tu impieghi a fare tre convegni, lui si prepara un cocktail dentro una vecchia boccetta di profumo svuotata, ci si fuma su un sigaro, e ascolta un 33 giri. Più che per diventare padre, mi pare pronto per la rottamazione.

Di nuovo oltreoceano, Dave Eggers (se mai dovessero tradurgli le mie parole, sappia il formidabile genio che in Italia esiste una roba complicatissima chiamata Mud Machine) spennella un affresco gustoso dell'Illinois. Ma si fa prendere un po' la mano e trasforma in cittadini onorari cani e porci passati un weekend per Chicago (Dave, hai dimenticato il profeta mormone). Finisce col vantare persino il maggior numero di set del regista di Mamma ho perso l'aereo, l'invenzione della bomba atomica, e i grattacieli (vi risparmio la battuta sugli edifici fallici). Di Lincoln narra che era stato «il sostegno degli amici a farlo diventare quello che era»: in pratica, ogni volta che restava al verde, qualcuno gli trovava un lavoro, ovvero una cosa che, in Italia, sarebbe stata subito bollata come "magna magna", mentre in America si chiama «le splendide opportunità di un Paese libero» (con il 15% di poveri tagliati fuori dal dibattito politico).

E mentre laggiù Obama europeizza, i cervelli di IL sognano di americanizzare la brutta e cattiva Italia spingendo il loro candidato cattolicone Matteo Renzi. Perché un candidato che si rispetti deve credere negli angeli, e scrivere lettere ai bambini nella pancia della mamma.

Tutta questa passione per l'America, ed ecco come Rossari liquida la Pivano, la donna che ha importato spavaldamente più letteratura americana nel nostro Paese: una vecchia megera fatua e bigotta. Devo annotarmelo: quando sarai un'ottantenne bollita, non aprire la porta ai giovani scrittori, che poi appena crepi ti pugnalano alle spalle.

Ma veniamo all'anima più pura dell'America, quella mormona. Allora, adesso Kirn ci spiega perché i mormoni non sono solo biancheria magica… ah no, aspetta, sono solo biancheria magica.

In sunto: il figlio di un brav'uomo fallito (strano, in un Paese pieno di opportunità) si converte alla chiesa mormone e inizia a credere che «quando hai bruciore di stomaco sei vicino allo spirito», si fa mettere le corna con non mormoni dalla mormona più porca del suo rione, e partecipa a simulazioni di apocalisse realizzate con poster di pianeti. Da grande, tornato laico, assume narcotici e Ritalin e si sente ancora in colpa per non aver portato a termine la missione mormone. Maturo, ritorna ai mormoni attraverso la moglie conosciuta online, ma solo perché quella sera a Salt Lake City era sbronzo e perché fare un film con George Clooney aveva acuito l'antico complesso di inferiorità.

In chiusa, vorrei dedicarmi a Francesco Pacifico, che dopo avere fatto lo sborone e richiesto un'intervista di 30.000 battute, è costretto a fare una cosa odiosa chiamata «domande più lunghe delle risposte». Per fortuna, Sacchi rema contro la pedanteria dell'intervistatore con estrema chiarezza espositiva, poiché è abituato a spiegare la sua tattica a Berlusconi.

Mi preme infine dire che, nonostante i prodigi stilistici dell'illustratore, giuro che io e Arrigo Sacchi non ci somigliamo.

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