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Questo articolo è stato pubblicato il 22 ottobre 2012 alle ore 08:12.

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Nel 2000, dopo 26 anni di glabrismo militante, decisi di farmi crescere la barba. Sempre in quel periodo, stufo di una serie di montature minimali che non nascondevano il nasone di famiglia, optai per occhiali di bachelite nera. Al tempo pochi avevano la barba e quegli occhiali, ma né la barba né gli occhiali da vecchio film erano in sé originali. Sono passati dodici anni e, come capita sempre con le cose comode, ho mantenuto entrambi. Eppure, se per caso avessi anche una bicicletta a scatto fisso e si venisse anche a sapere che ultimamente tendo a mangiare più vegetali che proteine, ecco che immediatamente qualcuno punterebbe il dito e direbbe: «Ecco, figurati, un altro hipster!».

Non è la prima volta che si parla di hipster, ovviamente. La parola deriva da "hip", cioè tizio che segue la moda e le tendenze, e risale ai primi anni del 1900. Qualche decennio dopo è usata per definire chi frequenta l'ambiente fumoso e alternativo del jazz. Harry "The Hipster" Gibson, un pianista bianco che anticipò lo stile irrefrenabile di Jerry Lee Lewis negli anni Quaranta, è il primo a usare la variante che oggi sembra così fondamentale nella sociologia da banco. Dopo di lui molti, tra cui Norman Mailer. Negli anni Sessanta la contrazione "hippie" descrive giovani di tendenza su Rolling Stone, e scioperati anti-americani nelle parole dei repubblicani: una categoria bifronte nella quale rientrerebbe anche Bob Dylan, per dire. I cosiddetti hipster attuali però rappresentano l'accezione più inconsistente mai esistita del termine.

Anzi, a dire la verità io sospetto che non siano nemmeno una categoria sociale, quanto piuttosto uno strumento retorico. Nessuno si definisce mai "hipster", a differenza di quello che succedeva ai tempi dei fiori in bocca. Appiccico questo bollino estetico a qualcun altro per ribadire che no, io non sono così banale, figurarsi. Sembra, insomma, che essere à la page e seguire le tendenze della società sia segno di una pochezza d'animo imperdonabile. Chi dà dell'hipster a qualcun altro (o "dello hipster" se volete aspirare quell'acca) lascia intendere che lui è profondamente diverso. Ma da cosa? Dagli occhiali? E in che modo? È forse un contadino? No. È povero? In genere no. È preso da un afflato bucolico e detesta la città e il suo stile? No. È potenzialmente come un hipster, ma autentico.

Cioè segue la moda, ma non stupidamente; ascolta i dischi nuovi, ma lo fa con tutto un distacco critico che non ti dico; si pettina, si veste, si agghinda in un modo tutto suo personale, mica come quelli lì che sono intruppati nei canali della moda. Io ho orrore per il «discorso dei capelloni» di Pasolini, così come mi fanno impressione quelli che negano la natura gregaria della specie umana, e mi pare che le città siano bei posti, i quartieri in riqualificazione siano stimolanti, gli artistoidi (a piccole dosi) siano divertenti, e le persone davvero semplici e autonome non esibiscano la frugalità dei loro bisogni o l'originalità dei loro riferimenti. Volevo dire che non sono un hipster, perché vado in giro uguale da quasi quindici anni, ma se volete chiamatemi hipster, fate pure. Basta che la finiamo di proclamare la nostra unicità dimessa e insieme così consapevole: a fare troppe contorsioni poi viene il mal di schiena.

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