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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2012 alle ore 11:26.

Il personal essay, il saggio personale – idiosincratico e digressivo – nato in Occidente nel 1500 con Michel de Montaigne, è un genere consustanziale alla democrazia e agli Stati Uniti. Perfino il nome – Stati Uniti – è, almeno in parte, secondo Christopher Hitchens, «il risultato della brillantezza saggistica» del radicale inglese Thomas Paine, uno dei protagonisti della Rivoluzione americana. In che senso?

Nel senso che è un prolungamento della conversazione, del dialogo apparentemente divagante sui grandi temi etici e culturali, del costume e della società, del comportamento individuale e della vita collettiva, e sempre a partire da un'esperienza fortemente personale, come fa in ogni pagina dei suoi Essais Montaigne, il quale, tra l'altro, si infatuò del Nuovo Mondo e oggi in America gode di una popolarità da noi inimmaginabile (ricordo però la recente, splendida edizione degli Essais a cura di Fausta Garavini e André Tournon, Bompiani). E inoltre il personal essay – esplicitamente soggettivo, diverso dal formal essay, accademico e impersonale – è legato a un pensiero critico, deviante, eretico, a quello che il saggista Marshall Berman volle definire jaytalking, espressione che viene da jaywalking (attraversare fuori dalle strisce) e che si potrebbe tradurre con «parlare fuori dagli schemi».

È un genere in cui si incrociano giornalismo e letteratura, autobiografia e saggistica, diario e antropologia, meditazione filosofica e memoir. Se un narratore deve "mostrare" e non "dire", l'autore del p.e., pur avendo anche il gusto del racconto, deve invece "dire": tell, don't show! A ben vedere la maggior parte di ciò che scriviamo è una qualche variazione del genere saggistico: pezzi brevi di prosa discorsiva, riflessiva, argomentativa, originati da una qualche contingenza personale e indirizzati più o meno esplicitamente a qualcuno.
Negli Stati Uniti, dove regna una specie di culto del p.e., ogni anno si raccoglie meritoriamente, a partire dal 1986, The Best of American Essay (editore Houghton Mifflin), una selezione affidata ogni volta a un saggista diverso dei migliori saggi personali usciti durante quell'anno in riviste e giornali, dai più noti New Yorker, New York Review of Books, Harper's magazine, Vanity Fair, Granta al più accademico Harvard Review, al non conformista Salmagundi e a tantissimi altri.

Dal suo primo numero l'antologia può allineare tra i curatori i migliori scrittori americani contemporanei: Gay Talese, Joyce Carol Oates, Susan Sontag, Stephen Jay Gould e poi nel 2007 Foster Wallace… Una pubblicazione indispensabile per capire umori e sensibilità di quella nazione e che considero assai più avvincente della grande maggioranza dei romanzi contemporanei. Sfogliando i 25 anni di The Best American Essays potremmo raggrupparne i saggi, di diversa lunghezza (da un minimo di 4/5 pagine a un massimo di 20), in 6 aree distinte, che corrispondono ad altrettanti argomenti: L'America, la sua storia, la sua tradizione, esplicita o nascosta L'area variegata del pop, i prodotti più significativi della cultura di massa, dai Simpson a Matrix (nel 2004 un saggio strepitoso di Rick Moody, Against cool: il cool ai tempi di Miles Davis era sovversivo e poi negli anni Ottanta significa "morto dentro"…) I fatti della vita quotidiana: litigi familiari, problemi di cucina, dinamiche di coppia, cani e gatti ecc.

L'attualità politica (bellissimo saggio del Pulitzer David Halberstam su un raffronto fra Twin Towers e Pearl Harbour) Critica dell'ideologia, delle mode e idee dominanti (Epstein nel 2006 contro il culto ossessivo della celebrità) La condizione umana (e qui ci riallacciamo alle origini nobili del genere, a Seneca…): il senso della vita, il limite oscuro (malattia, morte, precarietà…), il valore dell'amicizia e dell'amore, la felicità e la depressione (memorabile nel 2002 Barbara Ehrenreich malata di tumore con Welcome to Cancerland).
Come ho già detto, la genesi del p.e. riporta a Montaigne e all'Illuminismo, mentre in America dobbiamo aspettare l'Ottocento, i due maestri Emerson e Thoreau, fino ad arrivare al Novecento, ai Baldwin, Trilling, Mailer, Capote, Vidal, Didion, Fiedler (suo il pregevole The art of the essay, 1958), Wolfe, Sontag, ma anche gli smaglianti saggi di Franzen e Foster Wallace.

In Italia il personal essay non ha veramente pubblico né tradizione. Potrebbe intrattenere una vaga somiglianza con l'elzeviro, però questo tende ad avere carattere erudito-elitario, e la stessa accuratezza formale sfocia volentieri in uno stile "squisito". Né la nostra prosa d'arte, cui l'elzeviro appartiene, si caratterizza per quell'elemento di "dissenso", di polemica culturale e protesta morale, che secondo Hitchens è intrinseco al genere, come scrive nella introduzione al The Best American Essays del 2010, da lui curata. Ci sono autori che sfiorano questo genere – penso alla saggistica autobiografica e personale di La Capria, Bellocchio, Berardinelli, Pascale, e perfino Citati dà il meglio di sé quando vi si cimenta, in verità piuttosto raramente, invece di ri-raccontarci con stile vaporoso i Grandi Classici… –, ma i lettori si contano sulle dita. Qualche anno fa l'editore Gaffi ha pubblicato un libro del grande saggista-scrittore Phillip Lopate – L'arte di aspettare – che però ha venduto poche centinaia di copie, pur contenendo alcuni "pezzi" di straordinaria sottigliezza oltre che di piacevole leggibilità (ad es. sull'aspettare i ritardatari al caffè o contro la ingannevole retorica della joie de vivre oggi da tutti reclamizzata…).

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