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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2012 alle ore 11:35.

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Nel romanzo di Ben Fountain, Billy Lynn's Long Halftime Walk, la squadra Bravo, cui appartiene Billy Lynn, diciannove anni, «ancora tecnicamente vergine», viene richiamata dall'Iraq negli Stati Uniti per celebrare il suo "Victory Tour", un giro trionfale.

Il brusco passaggio dagli Humvee alle limousine Hummer, dalla minaccia di essere mutilati o uccisi a quella di sfigurare in tv durante l'intervallo del Superbowl, viene percepito dai soldati senza cambiamenti di umore o adattamenti emotivi. Sono talmente infantili che non riescono a distinguere tra la forza letale di una scheggia di mortaio e di una risposta imbranata a Beyoncé. Come dice il loro sergente Dime: «Amo ognuno di questi bastardini come un fratello, scommetto di amarli perfino più della loro mamma, ma ti dirò francamente – si rivolge a un milionario che finanzia lo stadio dei Dallas Cowboys e che gli ha chiesto come Bravo gestisce alti livelli di violenza – e loro sanno come mi sento perciò posso dirlo proprio davanti a loro, ma tanto per la cronaca, questo è il peggior mucchio di macellai psicopatici che ti riuscirà mai di vedere». Risposta efficace solo se non si pensa che l'autore ha esagerato con i monologhi del sergente Hartman in Full Metal Jacket su YouTube.

Problema non piccolo del romanzo è che i soldati di Bravo si muovono come una concrezione di citazioni cinematografiche al cui centro sta, unica testa con scintille di pensiero individuale («giunse a credere che la sconfitta è la traiettoria standard»), il più eroico di loro, Billy. La cui azione nel canale di Al-Ansakar, dove il compagno Shroom cade in una trappola mortale, ha avuto la fortuna di essere filmata e trasmessa da Fox News. Il tentativo di Fountain, di mostrare una squadra di eroi della guerra in Iraq come vittime di un reality show (l'America stessa essendo diventata il set del reality globale), rincretiniti dai Jack Daniel's e Coca e dai farmaci, umiliati a far da spalla alle Destiny's Child nell'intervallo della finale tra i Dallas Cowboys e i Chicago Bears, raggirati dal loro agente, che vorrebbe vendere i diritti per la loro storia a Hollywood, è fin troppo calcato. Nulla, nel romanzo, fa pensare che l'autore concepisca il soldato come alcunché di diverso da John Wayne in Berretti verdi.

Eppure il lettore viene invitato a provare empatia e persino dolore per questo soldato, manipolato dai media, dai milionari texani, dai pescecani di Hollywood e persino dalle ragazze pompon cristiane che non hanno il coraggio di dire agli eroici soldati di Bravo: «Diserta», ma solo «Non devi scappare da nessuna parte, torna a casa e staremo bene». Parafrasando Rousseau: i soldati (e la guerra) sono buoni (nel senso che sono sinceri, senza ipocrisie), è la società del Superbowl e delle colazioni ipercaloriche a essere cattiva. Abile sofisma, Mr. Fountain, ma non la beviamo.

Ben altra sottigliezza, benché non priva delle ingenuità dell'esordiente (intendi: metafore eccentriche e ahinoi lo stream of consciousness) si coglie nel romanzo The Yellow Birds, di Kevin C. Powers (in Italia uscirà nel 2013 per Einaudi Stile Libero, tradotto da Matteo Colombo) che, forse perché è stato mitragliere in Iraq, non si sogna nemmeno di bighellonare circa la maggiore o minore moralità della guerra o degli indici di ascolto. Lo stile di vita americano, che tanto indispettisce Fountain, qui è del tutto messo da canto, atteso che ci sono piaghe ben maggiori: la menzogna, il tradimento, l'incapacità di essere all'altezza delle promesse fatte a sé e agli altri.

The Yellow Birds è una stringata, efficace storia di doppia morale, dunque di doppia verità. Il narratore, il soldato John Bartle, prima di partire per l'Iraq, promette alla madre del soldato Daniel Murphy che glielo riporterà a casa. Murph, lo si capisce fin dalle scene d'addestramento, non è pronto. Come dice il sergente Sterling: «Se torni negli Stati Uniti nella tua testa prima che ci vada anche il tuo culo, allora sei un fottuto uomo morto». Il problema è che in nessun modo il soldato Bartle e il sergente Sterling si sentiranno di riportare a sua madre il soldato Murph, una volta che lo avranno ritrovato, ai piedi di un minareto ad Al Tafar, provincia di Ninive, senza naso, senza occhi, senza orecchie, semicastrato e semidecapitato. Murph, impazzito dopo l'ennesima pioggia di mortaio che aveva ucciso la dottoressa del campo mentre costei era in preghiera in una chiesa di compensato, si era allontanato dalle base, vagando nudo per la città.

Il romanzo, come va deprecabilmente di moda, svolge la sua narrazione saltando avanti e indietro nel tempo, con scene di respiro bucolico nella Virginia di Bartle, e flashback iracheni che seguono il progressivo perdersi di Murph come un signor Kurtz capovolto. Mentre il personaggio di Conrad si identificava negli indigeni per meglio dominarli e realizzare perfettamente il suo anelito colonialistico, Murph lascia che gli insorgenti facciano scempio di lui perché non trova nessun senso, nemmeno il dominio, in quella guerra le cui ragioni, diciottenne sprovveduto, può ripetere a memoria ma non comprendere. Ragioni che nemmeno la madre può cogliere e provvidenzialmente Sterling e Bartle le sottraggono il corpo del figlio, abbandonandolo alla decomposizione nel Tigri e inventando che è andato disperso. Impossibile dunque riunire questi due romanzi sotto un unico tema: l'elaborazione della guerra in Iraq nella letteratura americana*.

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