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Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2012 alle ore 08:26.

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Quei giorni di mezzi toni, mezze intenzioni, incerti confini tra un cielo che un pulviscolo vela e una strada titubante: di vento, di cambio di stagione, di umori; quel disagio insomma di non saperci a posto, che non ha colore, indefinibile e tuttavia preciso nel pungere, nello stringerci al nulla: «Un blu che non è nemmeno blu o comunque / è un blu chiaro chiaro e la polvere / sembra mischiata nel l'aria essendo un / poco gialligno il cielo che è stesura di sabbia». Così Amelia Rosselli, in Documento (ora nel prezioso Meridiano appena uscito da Mondadori), per definire quell'«aria di sabbia» che ci veste e ci cancella.
La storia dei colori è il più affascinante percorso per comprendere la volubile incertezza del nostro percepire la superficie di ciò che ci circonda, del definire le cose col nostro sguardo, dell'attraversare la luce e ciò che essa ci disvela – alle varie ore del giorno, dell'anno –, e persino per accertare l'incalcolabile varietà di materie con cui l'uomo nei secoli «s'è fabbricato i colori» quando doveva, in arte o nei manufatti, imitare, riprodurre, le cose che ci stanno intorno. Ove è più, se non in carta, quel «bianco di ossa calcinate» che nel tardo Quattrocento serviva «cum colla dolce» a preparare il «mordente» per stendervi poi sopra «oro in muro», come ci attesta il manoscritto bolognese ora edito presso Olschki? E chi farebbe ancora il verderame alla maniera suggerita dal mirabile manoscritto? «Prendi lamine di rame sottilissime e mettile in un recipiente che metterai sottoterra, in un luogo umido, sotto tre palmi di letame di cavallo, e tienilo 30 o 40 giorni. Poi tiralo fuori e spruzza molto bene le lamine con aceto fortissimo, poi rimettile nel recipiente sotto il letame. Stiano ben coperte per un mese e sarà fatto il verderame». L'autore stesso, nei punti più ardui di queste «trasformazioni di materia in colore», dichiara: «Questa è una opera oculta filosoficale» e bene la definizione s'attaglia al ricercare di Leonardo, allo svanire dei suoi colori e – lo si comprende leggendo i trattati coevi – al l'impossibilità «storica» di un vero restauro oggi, ogni «riparazione» presente non potendo essere, senza più quella «visione della materia», che un rifacimento più che un ripristino.
Si provò a far Teoria dei colori Goethe, e poi anche Wittgenstein nelle sue Osservazioni sui colori. Ma la realtà è che noi vediamo, da un po' più di un secolo, in modo «chimico» e inorganico: ciò che ci viene incontro, che ci veste e ci colora, è un universo di reagenti spalmati sulla superficie del mondo; nei secoli che hanno preceduto il XIX, si vedeva e si viveva in modo «organico»: di terra e di letame, di «succo di erbe» di «cociole d'ova» e calce spenta, e insieme «simbolico» del l'eterno: di lapislazzuli, di oro e di allume, in un impasto di moriente e d'infinito che mai più ci verrà restituito.
Tanto ciò è vero che i Futuristi, che disfecero – con Picasso – il volto dell'uomo, provarono, quasi a risarcimento, a rimescolare i colori del mondo, a reinventare la materia del veduto, a sottrarla al dominio industriale: il prodigioso catalogo di prelievi testuali approntato da Lino Di Lallo (e che ancora cerca un editore) è largamente incentrato su quei testi, testimone Apollinaire: «Nello spazio d'un anno, Picasso visse questa pittura madida, azzurra come il fondo umido dell'abisso, e pietosa» («I pittori cubisti»). L'accenno appena – tra Pascal e Baudelaire – del finale, sui fondali d'abisso, ci ricorda che nel XX secolo la pittura metafisica s'è fatta così, liberando la materia, le paste sulla tela, da ogni richiamo all'esistente per «portarla sopra» (metà ta phusicà) o sotto, nei cieli o negli inferi, purché in una durata garantita dalla gloria o dal terrore non dalla «produzione», come nell'inobliabile passo dell'Adalgisa di Gadda ove anche il cliché del consumismo piccolo-borghese degli otia gozzaniani si riscatta in quel biblico «arancio-fuoco modello Gomorra»: «Quella ammonizione murale: "domenica! Alle ore 15 precise!", in una luce arancio-fuoco modello Gomorra, era la nube affocata di Dio latrante sopra i suoi peccati di cioccolato, l'inesorabile mane techel phares che lo attendeva al saldaconto, in cima d'una settimana di gianduia».
Si passa anzi, dall'uno all'altro secolo, dai «colori critici» alla Faldella: il predominare di «una tinta di borghesia indomenicata», ai colori – meditazione, temprati al «cristallo delle diafanità» (Andrea Zanzotto, Vocabilità, fotoni), capaci di avvolgerci per sempre negli araldici «incanti grigio-zen»: «forse cita Dante o cita fruscii di foglie / scostate dal braccio robusto / spostate dalla gonna americana / nubiloso è l'asfalto della strada / meditazioni ne esalano, incanti grigio-zen» (La maestra Morchet vive, da Fosfeni). E si può giungere più in là, a immaginare il colore non già quale coperta, dipintura, dello spazio bensì freccia del tempo, come il «color tango» dell'Italia di Bonincontro (1940) di Antonio Baldini, oppure – a parabola conchiusa – un «color di tempo svanito»: «Le signore più aristocratiche e formaliste eran vestite da sera. Altre, con quelle pamele che usavano l'altr'anno, pareva si studiassero di riprendere in sordina un color di tempo svanito» (Emilio Cecchi, America amara, 1939). E di colori si tesse, nei grandi poeti, come ha insegnato Max Milner, anche l'ombra – ombra che buio non è, ma prolungamento nell'impercepito, cono d'abbandono o di desiderio, come nella rievocazione che Sereni ci offre del mito di Rimbaud, quell'«ombra volpe o topo che sia / / sfrecciante via nel nostro sguardo / irrelata ignorandoci nella luce calante...» (Rimbaud, scritto su un muro). Il colore insomma, quell'entre-deux tra materia e persona, tra percezione e memoria, tra convenzione e invenzione, è l'impalpabile e sovrano «ambiente» del nostro scorrere nel relativo; e la poesia e le arti sole s'incaricano di «staccarlo» dal tempo per farne sinopia d'eternità: colore a venire, nome a venire, come nelle Botteghe color cannella di Bruno Schulz: «Oh, verdi più verdi dello stupore, oh, preludi e cinguettii di colori appena intuiti, ancora in cerca di un nome!». Oppure istanza finale, oltre ogni visione, s'insinua la certezza che a voler veramente fissare, fissare il tempo, interrogare le cose, scrutare in noi, un colore solo s'allarghi a macchia, cancelli gli altri, pareggi finalmente i conti: «Non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?» (Vittorio Sereni, Autostrada della Cisa).

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