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Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2012 alle ore 08:30.

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Sigfrido non balla, per fortuna. La cifra interpretativa che era stata fino a ora la chiave di lettura più diversa del Ring della Scala, alla seconda giornata della saga wagneriana si ferma. «Gott sei Dank» (grazie). Ancora in positivo, ritornano tante citazioni suggestive, ad esempio le colate di fili rosso sangue, delle precedenti puntate dell'"Anello" firmato dal corposo team belga del regista Guy Cassiers, con scene e luci di Enrico Bagnoli, costumi trash punk assai vicini allo straccione di Tim van Steenbergen, video iper raffinati di Arjen Klerky e Kurt D'Haeseeler, e appunto con le coreografie inedite, qui pudiche e calzanti di Sidi Larbi Cherkaoui, centrate in una essenziale danza di spade. Siegfried è la puntata più compatta ed esplosiva, emozionante e risolta, della nuova Tetralogia che Daniel Barenboim porta al Teatro milanese.
Ed è difficile dire di chi sia maggiore il merito: se del podio, con l'orchestra in buca che fa faville, trasformandosi ora in lava, ora in bosco, ora in pietra ostile e fredda, oppure se del protagonista. Lance Ryan è incredibile: tenore decisamente bello, alto, prestante, dall'incarnato adolescenziale, perfetto, di voce screziata, mai stentorea, dal declamato duttile, teatrale, morbido e chiaro nei momenti di commozione, pazienza se nell'intonazione qualche nota in su scappa, ma soprattutto che clamorosamente va a tempo. Il vento è cambiato. Anche per Wagner.
Sigfrido non impara come vorrebbe la paura dal nano Mime che lo ha cresciuto. Ma da lui, che è lo straordinario Peter Bronder, brutto tenero, viscido ma stiamo dalla sua (basta che il ragazzo gli butti a terra gli occhiali dal naso) Sigfrido impara a forgiare una spada con un ritmo di martello che sfida i migliori percussionisti. La loro casetta si aggiorna, è high-tech, parete sottile fino al boccascena, con luci led e otto schermi tv, il forno per la spada sopra, fornello per le pozioni sotto. C'è tutto.
Il bosco del secondo atto si guadagna il momento clou di magia, coi tronchi argentei, in cascate di lampadine (ma non pensate al Tannenbaum), gocciolanti. Cadono a terra e diventano una montagna di oro. È il luogo degli scontri tra titani: il Wanderer-Wotan di Terje Stensvold, liederistico, giustamente, il nevrotico Alberich di Johannes Martin Kränzle, il tonante Fafner di Alexander Tsymbalyuk, con amplificazione alonata, non terribile. Le donne del terzo atto non li emuleranno: Anna Larsson è una Erda stranamente immota e stimbrata e la gloriosa Nina Stemme lotta palesemente con un'influenza, anche se come sempre poi vittoriosa col suo canto affilatissimo e potente.
Le cinque ore e mezza dello spettacolo, intervalli compresi, scorrono come un fiume che irretisce. In sala è trionfo per tutti. Barenboim tiene magistralmente il torrente impetuoso, dal carattere giovane, come il protagonista, con un dominio dall'arcata complessiva controllatissima. Ciascuno dei tre atti ribolle di furie e dice come non l'avevamo mai sentita la tempesta ribelle di Sigfrido: la voglia insana di avere paura, di provare quel brivido che la giovinezza per natura non conosce, per cui sposta sempre più in là la soglia del rischio. Ma anche di assaggiare l'altra emozione, che pulsa rabbiosa, perché sconosciuta. Sarà il sentimento amoroso a produrre paura, finalmente. Il solo. Talmente abissale da venir cantato come doppio della morte. Qui Barenboim arriva al punto apicale della sua concertazione, che ha avuto per ogni atto, per ogni scena, per ognuno degli infiniti duetti di cui è costruita la magica partitura - forte e fragile, perché così è il giovane uomo - colori cangianti e diversi, spettacolari.
Il superbo crescendo è riservato per la fine. E mentre in scena la roccia di Brunilde coi due che amoreggiano sale verso il cielo, con tratto un po' glassato ma pazienza, un gesto finale ci voleva, dalla buca dell'orchestra esce un suono di granito freddo, tombale, che dice che l'età dell'oro è finita. Ma anche quella del l'amore. Da lì in avanti sarà Crepuscolo.
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Siegfried, di Wagner; direttore Daniel Barenboim, regia di Guy Cassiers; Teatro alla Scala, fino al 18 novembre

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