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Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2012 alle ore 08:28.

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Quarant'anni fa, l'11 giugno 1992, l'Austria presentò al l'Onu la famosa "quietanza liberatoria" che chiudeva l'annosa vertenza circa l'applicazione degli accordi del settembre 1946 fra De Gasperi e Gruber sulla sistemazione del futuro del Sudtirolo/Alto Adige.
Poca attenzione è stata dedicata a questa vicenda che invece è stata ed è ancora considerata un modello per la risoluzione pacifica di questioni legate a regioni con problemi di convivenza etnica: se ne è parlato per il Nord Irlanda, per la questione di Cipro, per il conflitto israelo-palestinese, tanto per citare i casi più noti.
Siamo un Paese poco propenso a celebrare i propri successi e questo è un caso emblematico. Il conflitto per il Sudtirolo (rendiamo a questa zona il suo vero nome storico) non fu affatto una noiosa e compassata vertenza risolta in negoziati internazionali. Essa originò da tensioni che a partire dal giugno 1961, con la famosa "notte dei fuochi", sfociarono in un terrorismo fattosi via via più aggressivo che finì praticamente solo nel 1968/69 (quando iniziavano in Italia gli anni di piombo). Ora un volume di due autori trentini, Mauro Marcantoni e Giorgio Postal, ricostruisce meritoriamente quegli anni e consente una valutazione di grande interesse di questo passaggio.
Il volume, scritto con uno stile asciutto e molto aderente ai fatti, si avvale di una base documentaria sin qui inedita, cioè le stesse carte della Commissione conservate da uno degli autori, Giorgio Postal, un dirigente della Dc trentina collaboratore di Flaminio Piccoli, che vi prese parte come addetto alla segreteria. Si aggiunga a suo onore, cosa non frequente in questo Paese, che Postal ha depositato quelle ed altre carte presso l'Istituto Sturzo di Roma in modo che possano essere consultabili dagli studiosi.
Ciò che mi pare di grande interesse, al di là della pur importante vicenda dello sviluppo dell'autonomia delle province di Trento e Bolzano, è la responsabilità mostrata in questa occasione dalle forze politiche di allora attraverso quasi tutti i principali attori sulla scena. Fare fronte ad una ondata di terrorismo che divenne sempre più feroce (dopo gli iniziali attentati ai tralicci delle linee elettriche si passò a cercare stragi sui treni e ad assassinii di uomini delle forze dell'ordine) non fu operazione semplice.
Se nella prima fase ci fu probabilmente qualche eccesso anche da parte delle forze di polizia italiane, non v'è dubbio, e risulta chiaramente da queste carte, che prevalse ben presto la freddezza delle istituzioni che lavorarono per riportare la vertenza nei termini di un civile confronto fra le parti in causa.
Il libro, che è molto equilibrato nella ricostruzione dei fatti e che offre una appendice documentaria di ben 236 pagine, mostra come ci sia stata una convergenza, certo non facile, fra le forze di governo in Italia (democristiani e socialisti) e i vertici dello stesso partito sudtirolese della Svp, in particolare del suo leader Silvius Magnano, per tenere la vertenza fuori delle vampate tardo-nazionalistiche che minacciavano di bruciarlo. Non fu un'impresa semplice per la Svp al cui interno, come il libro documenta bene, non mancavano affatto i radicalismi irriducibili. Specialmente sul versante austriaco e anche bavarese prevalse invece a lungo la dissennata idea che il terrorismo sudtirolese fosse una variante dei moti "nazional-irredentistici" ottocenteschi (perfino giornali autorevoli come la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» caddero in questa trappola neoromantica).
Fu merito di Magnago e della parte responsabile della Svp tenere a bada queste mitologie (ovviamente senza poterle prendere troppo di petto), ma fu merito anche del versante italiano accettare l'idea che il terrorismo si sarebbe smontato non con la durezza della repressione in nome dell'orgoglio nazionale, ma con un serio negoziato che accettasse di sistemare una questione di convivenza e di identità etnico-culturali che indubbiamente esisteva. E anche questa decisione di parte italiana non fu facile in presenza di molte vittime innocenti e di mancate stragi.
Naturalmente il negoziato non fu affatto semplice, né si svolse come un idillio fra le parti, anche se è interessante notare che più volte nel corso dei lavori venne riconosciuta la buona fede reciproca. L'Italia fu molto ferma nel mantenere le trattative nell'ambito di un negoziato diretto fra Roma e la rappresentanza delle popolazioni locali, escludendo che fosse materia di un negoziato bilaterale con l'Austria. Può sembrare che sia stato solo un espediente per non ammettere una diminuzione della propria sovranità, ma di fatto fu un metodo innovativo che, magari senza piena consapevolezza, riconosceva che in una democrazia moderna a contare non erano solo i cittadini come singoli, ma anche entità territoriali con una propria fisionomia peculiare (e alla fine non solo quella sudtirolese, ma anche quella trentina).
Riflettere su quel che è avvenuto farebbe bene a tutti: a chi non crede più che la politica, quando è seria, possa guidare a soluzione i conflitti, così come a chi, purtroppo ancora oggi, tende a sottovalutare i frutti della convivenza in pace per tornare al neoromanticismo di nazionalismi fuori tempo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Mauro Marcantoni, Giorgio Postal,
Il Pacchetto, dalla Commissione dei 19 alla seconda autonomia del Trentino Alto Adige, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, pagg. 550, € 22,50

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