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Questo articolo è stato pubblicato il 04 novembre 2012 alle ore 13:36.

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Dopo avere affrontato, un paio d'anni fa, le torbide atmosfere patologiche di Improvvisamente l'estate scorsa, la compagnia dell'Elfo – che da quando si è insediata nella nuova sede non sbaglia un colpo – torna di nuovo a Tennessee Williams, un autore che evidentemente le si addice, che riesce a essere insieme un grande artista e un grande artigiano, creatore di sottili trame psicologiche e di robusti effetti teatrali: e proprio in questa capacità di conciliare le emozioni forti con la raffinatezza della scrittura sta, probabilmente, la ragione della nuova popolarità delle sue opere, che in altri tempi parevano destinate a finire inesorabilmente fuori moda.
La scelta, stavolta, è caduta su una pièce finora mai rappresentata in Italia, La discesa di Orfeo, nota anche come Pelle di serpente, dal titolo attribuito sui nostri schermi al film di Sidney Lumet, con Anna Magnani e Marlon Brando: siamo, insomma, ancora a cavallo tra i chiaroscuri della ribalta e i richiami cinematografici. Ma Elio De Capitani, che con Williams ha ormai una certa dimestichezza, ha puntato a neutralizzarne in questo caso i risvolti melodrammatici, costruendo una scarna messinscena che entra ed esce continuamente dal testo.
Prendendo, forse, spunto dall'esemplare allestimento di Un tram che si chiama desiderio firmato da Latella, ma elaborandone le suggestioni in modo autonomo e molto efficace, nel segno di Fassbinder, il regista ambienta la vicenda intorno al tavolo da lavoro dove sta per iniziare la prova di un'ideale compagnia teatrale. L'azione si apre con gli attori che prendono posto a uno a uno, salutandosi al loro arrivo: uno di essi assume il compito di leggere le didascalie, descrivendo minuziosamente ciò che accade. Ma tutti tendono a commentare, a osservare come dall'esterno il proprio personaggio.
L'intreccio – ancora piuttosto acre e provocatorio – sembra un alto concentrato delle inquietudini tipiche di Williams, l'affresco di una società xenofoba, ipocrita, bigotta, intollerante verso qualunque forma di diversità, squassata da torbide pulsioni passionali. In questo clima, non può avere futuro l'attrazione – o l'amore, che lui le dichiara – tra il disincantato vagabondo Val, con la sua chitarra e la sua giacca di pelle di serpente, e la matura Lady, moglie di un notabile anziano e malato che anni prima, come apprendiamo, le ha bruciato vivo il padre, emigrante italiano: finiranno l'uno fatto a pezzi dalla comunità, l'altra uccisa a revolverate dal marito.
Questa discesa agli inferi di un odierno Orfeo nel ventre buio della provincia americana, disarticolata nella sua struttura narrativa, prosciugata da ogni eccesso di realismo, assume quasi una sorta di nitidezza dimostrativa: quanto più se ne raggela l'andamento a fosche tinte, tanto più sembra acquistare una livida dimensione tragica. I suoi meccanismi, così smontati e rimontati, alla fine funzionano ancora meglio. Nel cast, accanto alla Lady di Cristina Crippa, emblema di una carnalità indomita, rabbiosa, sono da segnalare Edoardo Ribatto, che nel ruolo di Val – su cui pesa l'ombra di Marlon Brando – se la cava al meglio, Elena Russo Arman, bravissima nel tratteggiare la fragile Carol, l'immancabile ricca alcolizzata, e poi Debora Zuin, che è l'algida infermiera, lo stesso De Capitani, il truce sceriffo, e Christian Giammarini, che coi suoi interventi introduce, raccorda, fa da filo conduttore.
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La discesa di Orfeo, di Tennessee Williams, regia di Elio De Capitani, Milano, Teatro Elfo-Puccini, oggi ultima replica

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