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Questo articolo è stato pubblicato il 09 novembre 2012 alle ore 16:49.

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Almost Famous/17. The Van Houtens, ovvero: l'arte di non prendersi sul serioAlmost Famous/17. The Van Houtens, ovvero: l'arte di non prendersi sul serio

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L'estetica del disimpegno. Sarebbe un bel titolo per un saggio serio sull'arte di non prendersi mai troppo sul serio nelle arti. In un saggio del genere ci starebbe a pennello un riferimento alla musica dei Van Houtens, duo anglo-italiano che ha esordito con un album eloquentemente intitolato «Flop!» per la casa discografica indie Face Like a Frog. Sono fratelli, hanno base a Verbania e rispondono ai nomi di Alan e Karen Ramon Rossi. Davanti a Van Houtens hanno posto l'articolo «the» come usavano le band della primissima British Invasion, quelle tutte melodie orecchiabili, testi imbottiti di «I love you» e «yé-yé».

È un po' una dichiarazione d'intenti: i fratelli Rossi sono qui per farci canticchiare sotto la doccia, mica per indurci a meditare sui misteri dell'universo sopportandone il peso. E allora vai con le danze: chitarra elettrica in levare che suona vagamente ska, suggestioni coloristiche nelle liriche, coretto da juke box da Forte dei Marmi. Sono gli ingredienti di «Automatic Girl», il ruspante apripista del disco.

Ma il meglio deve ancora venire: provate voi a togliervi di testa la melodia di «John Ferrara & Betty Karpoff», nonsense immaginato come tormentone estivo. Fa fede il video virale intriso di immaginario Sixties (tra il Brit Pop e pecoreccio) fatto girare su YouTube qualche mese fa. Testo in un curioso pidgin che mescola inglese, italiano e francese: «She turned down the radio in Saint Tropez/ My love come back, ormai les jeux sont fait/ Sono già finite le holidays/ magari ci sentiamo su Myspace». Insomma: tra i Beatles di «Mundo paparazzi/ mi amore/ chica Ferdy/ parasol» e il Franco Battiato di «Good vibrations/ Satisfaction/ Sole mio».

La terza traccia ci rende edotti a proposito di quello che dev'essere lo sport preferito dei Van Houtens: scrivere pezzi che abbiano lo stesso titolo di classici del rock. Si intitola «I want to tell you» come quel delizioso suggello che George Harrison pose su «Revolver», ma questa qui è una scampagnata lo-fi tra l'electro-pop degli Eighties e la jazzy dance di Caro Emerald. Nell'album appaiono pure «It's a Beautiful day» (come quella degli U2), «Waiting for the Sun» (the Doors) e «Paper plane» (Status Quo) che con gli originali, com'è ovvio, non hanno nulla da spartire. Del tutto originale è invece «Matala», con il caratteristico accompagnamento d'ukulele e il coretto di bambini alla Oliver Onions (ricordate «Io sto con gli ippopotami»?).

Non proprio ispiratissima «Tosa come back» che ha il suo punto di forza nel riff arrabbiato di chitarra elettrica. Riesce spiritosa l'acustica «Baby don't lie», con ritornello infarcito di bilabiali e tanto di cane campionato che abbaia in sottofondo, stile «Ruff mix» di Wonder Dog. Merita menzione «1987 Souvenir», il brano finale - e, aggiungiamo noi, definitivo - dell'opera, campionario di stilemi musicali anni Ottanta. C'è un basso continuo alla Adam Clayton, una drum machine stile Kraftwerk, voci deformate alla maniera dei Rockets, effettacci da sigla di cartone animato giapponese. Diciamo che Zed Robot, il mimo plasticoso che figurava tra le attrazioni di punta del programma Rai «Pronto Raffaella!», ci starebbe benissimo a ballarci sopra. Fossimo nei panni dei Van Houtens, lo prenoteremmo per un video. Very vintage.

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