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Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2012 alle ore 18:52.

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Il cinema italiano cerca di trovare certezze all'interno di uno scenario globale e nazionale che rischia di spostare l'asse della distribuzione e del consumo lontano dalla produzione e dalle risorse che le sono necessarie.
La crisi non incrementa il consumo in sala (pur essendo il cinema un mezzo a basso prezzo rispetto ad altre modalità di uso del tempo libero fuori da casa, dal ristorante allo stadio) mentre le televisioni, gratuite e a pagamento, devono a loro volta far fronte al calo di pubblicità e di abbonati.

Televisioni fuori quota
Al Festival di Roma, i produttori dell'Anica partiranno proprio dai rapporti tra cinema e televisioni nazionali per sbloccare una situazione al limite del paradosso. Da quattro anni si attende un Regolamento che dia attuazione a quanto previsto dalla legge Finanziaria 2008, approvata a fine 2007. Quando il ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni, con il totale appoggio del ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli, interveniva per far modificare il Testo unico della radiotelevisione, che aveva inglobato la ex legge 122 - limitata a canone e pubblicità come risorse si cui ricavare le "quote". Quella Finanziaria ha esteso le quote di investimento alla tv a pagamento e creato delle sottoquote per il cinema. Queste ultime sono pari al 20% della quota Rai (il 15% del fatturato da canone e pubblicità) e al 30% di quella dei privati (pari al 10% del fatturato).

Ci vuole un regolamento
Ci voleva un Regolamento dell'Autorità per le comunicazioni: la prima versione, dei primi mesi del 2009, conteneva una svista sulle quota per la pay tv e si perdono altri tre mesi. Le quote dovrebbero applicarsi dal 2010, ma la prima bozza del decreto Romani per recepire, con ampie modifiche, la direttiva europea sui servizi media e audiovisivi, prevede nei fatti l'azzeramento delle quota di programmazione e d'investimento. Di fronte alle proteste del settore vengono reinserite nel testo finale ma con un Regolamento non più da emanare da parte dell'Agcom (e quindi decade di fatto il Regolamento del maggio 2009) ma dal ministero dello Sviluppo di concerto con quello dei Beni Culturali. Il cinema italiano ancora attende, dal marzo 2010, tale Regolamento, senza il quale è impossibile attuare le quote (che andranno poi verificate e nel caso sanzionate sempre dall'Agcom, previo ulteriore Regolamento). Nel luglio 2012, peraltro, la definizione delle quote cinema per la Rai viene sottratta al contratto di servizio Rai-Ministero Sviluppo e integrata nel Regolamento "che non c'è".

I film nel mondo della rete
Un'altra scadenza fondamentale per il settore è costituita dal rinnovo degli incentivi fiscali: scadono a fine 2013 e costituiscono ormai l'unico intervento (indiretto) dello Stato a favore del cinema nazionale sul mercato. Lo scenario, intanto, propone nuove modalità di consumare cinema e audiovisivi su una pluralità di terminali - mentre è in agonia l'home video - che fanno competizione anche alle pay tv tradizionali. Tale consumo è in maggioranza illecito, ovvero senza alcun rientro per chi ha prodotto quel contenuto, oppure legale (Netflix in Usa, Canada, Gran Bretagna e Giappone) e a basso prezzo.

In discussione le finestre commerciali
In discussione sono allora le Windows, ovvero le finestre commerciali entro le quali un titolo può essere distribuito prima in sala e poi nelle altre piattaforme. Gli esercenti, alle prese con il calo della domanda e la chiusura di molte sale cittadine, respingono ogni proposta di far uscire in contemporanea il film nelle sale e in altre piattaforme. Tanto che quando "Venuto al mondo" viene proiettato sul treno Italo in contemporanea ai cinema, molte sale lo tolgono dalla programmazione.

Produttori coraggiosi, ma visibilità sempre più ridotta
Il film italiano vive una fase di buona creatività, con nuovi autori, con un ottimo "cast" nazionale di attori e attrici, con produttori coraggiosi, ma rischia di avere una visibilità sempre più ridotta. Le tv investono sempre di meno nei film cinematografici e poi hanno come criterio di fondo il risultato in sala per determinarne i prezzi. I nuovi aggregatori sul Web non investono in produzione; se va bene acquistano i diritti mentre il consumo illecito è da tempo un costume mentale nazionale non una pratica di poche minoranze.

Concentrazione non è crescita per tutti
Il cinema italiano, come le tv locali, ha pensato a lungo di campare all'ombra del duopolio, senza capire che la concentrazione è un rischio enorme per i fornitori esterni rispetto a un mercato aperto e concorrenziale. Vi è poi, non ultimo problema, la spada di Domocle di Medusa: l'unica società italiana integrata verticalmente tra produzione, distribuzione e sale sta riducendo i propri investimenti nell'acquisto e nella produzione di film americani e italiani.

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