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Questo articolo è stato pubblicato il 11 novembre 2012 alle ore 08:15.

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Esattamente cinquant'anni fa, nel 1962, vedeva la luce la prima edizione di un'opera destinata a incidere in profondità sul modo di concepire, e praticare, la storia della scienza: La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn. In luogo di essere un processo lineare e puramente cumulativo, lo sviluppo del sapere scientifico – secondo Kuhn – procede a ritmo discontinuo, attraverso l'alternanza di tranquilli periodi di "ricerca normale", caratterizzati dall'indiscusso predominio di paradigmi universalmente accettati dalla comunità scientifica, e di turbolente fasi "rivoluzionarie", che prendono avvio da nuove scoperte o, più tipicamente, da "anomalie" irrisolte e comportano lo slittamento da un paradigma all'altro. Ammesso che questo aleatorio ed erratico avanzare della scienza, fortemente influenzato anche da fattori sociali e culturali, meriti ancora l'appellativo di progresso, si tratta sempre e comunque di un progresso da qualcosa e non verso qualcosa.
Le tesi di Kuhn, si sa, non hanno mancato di suscitare animate controversie tra i filosofi e gli storici della scienza, e sono state oggetto di critiche talvolta virulente; lo stesso autore, d'altra parte, ha precisato e, limitatamente a certi aspetti, modificato le proprie posizioni nella seconda edizione della Struttura delle rivoluzioni scientifiche (1970) e nella raccolta di saggi La tensione essenziale (1977). A essere poste in discussione non sono soltanto le nozioni cardine su cui si impernia la posizione epistemologica di Kuhn (paradigma, rivoluzione, anomalia, incommensurabilità), ma anche la lettura storica dei numerosi case studies di cui egli si avvale per motivarle e illustrarle. Tra questi case studies, uno dei più significativi è l'esempio «quasi perfettamente tipico» di rivoluzione rappresentato dalla relatività einsteiniana, che nell'interpretazione kuhniana appare come la conseguenza e al tempo stesso la causa del collasso definitivo del paradigma della meccanica newtoniana.
Fin dal titolo – Sulle spalle di nani e giganti. La rivoluzione incompiuta di Albert Einstein – il saggio dello storico della scienza tedesco Jürgen Renn che, a distanza di sei anni dal l'originale, è di recente uscito in edizione italiana per i tipi della Bollati Boringhieri, sembra voler instaurare un dialogo critico con la visione kuhniana (o forse dovremmo dire con la sua vulgata). Questa prima impressione è confermata dalla struttura stessa del volume. I quattro capitoli centrali dedicati a una dettagliata analisi della genesi della relatività ristretta e della relatività generale sono incorniciati da tre corposi capitoli di carattere epistemologico-metodologico, il primo intitolato «Il paradosso del progresso scientifico», gli ultimi due «Un progresso circolare» e «La rivoluzione einsteiniana come trasformazione di un sistema di sapere».
L'autore afferma di credere fermamente nella realtà del progresso scientifico quale «risultato della trasmissione delle conoscenze e della loro trasformazione riflessiva». Il sapere, dunque, si accumula seppure in maniera non lineare, i modelli (mentali e reali) che costruiamo sulla base dell'esperienza e delle informazioni già acquisite si affinano, gli strumenti di cui disponiamo per esplorare il mondo si perfezionano, e la scienza avanza; non, tuttavia, come sistema indipendente ma in quanto sottoinsieme complesso e molteplicemente articolato del ben più vasto sistema sociale e culturale. In questa prospettiva che pare legittimo definire continuista, il progresso, non teleologicamente determinato, trova spiegazione come esito imprevedibile del «dispiegamento di possibilità già insite nello stato originario»: per cercare di tenere in piedi questa idea quantomeno curiosa Renn non esita a ricorrere al vecchio trucco hegeliano dell'«astuzia della ragione».
La "rivoluzione" di Einstein – iniziata con i quattro fondamentali articoli pubblicati nel 1905, tra cui quello che segna la nascita della teoria della relatività ristretta, e culminata nella formulazione, tra il 1907 e il 1916, della relatività generale – rappresenta, secondo Renn, un capovolgimento della fisica classica, che resta comunque saldamente ancorato alla meccanica, all'elettromagnetismo, alla termodinamica dell'epoca: si attuò attraverso una reinterpretazione radicale di alcuni "casi limite" teorici e sperimentali, e comportò un "processo di spostamento del centro concettuale" non dissimile da quello che condusse alla transizione dal modello tolemaico a quello copernicano. Tutti i pezzi del grande puzzle si trovavano, insomma, già a disposizione dei ricercatori. Se Einstein riuscì a ricomporli in disegno tanto coerente quanto nuovo e affascinante, ciò non fu dovuto a un qualche talento particolare, ma a un complesso di circostanze fortuite: le letture giovanili, le lezioni seguite al Politecnico di Zurigo, le conversazioni con Mileva Maric´ e con Michele Besso, la collaborazione con Marcel Grossmann, il confronto con le idee di fisici quali Lorentz, Planck, Poincaré, Abraham. Nelle parole di Renn: «Con un po' di esagerazione si potrebbe affermare che Einstein, quasi per caso, scalò esattamente nel momento dell'eruzione un vulcano che rumoreggiava già da molto tempo».
Molto si impara sulla genesi della relatività (soprattutto quella generale) dal libro di Renn. Ma è convincente la sua visione della scienza? Dobbiamo rinunciare a considerare la scienza come un'attività genuinamente creativa? Può essere utile a questo proposito ricordare quel che Kuhn ebbe a osservare in una pagina memorabile della Tensione essenziale: qualsiasi scienziato «deve mostrare contemporaneamente le caratteristiche del tradizionalista e dell'iconoclasta». Forse anche Einstein non fa eccezione.

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