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Questo articolo è stato pubblicato il 12 novembre 2012 alle ore 20:18.

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Il Festival di Roma non decolla, nonostante l'ottimo Fedorchenko, con il suo bel film Celestial Wives of the Meadow Mari, abbia almeno acceso la luce. Non riesce ad entusiasmare neanche quel geniaccio di Larry Clark, che ha scandalizzato il mondo del cinema (e non), con gli adolescenti scatenati di Kids e Ken Park e che torna dopo dieci anni – in cui ha fatto solo un documentario – al cinema di finzione. Il suo Marfa Girl, però, non è all'altezza del suo passato, di una cinematografia aggressiva e feroce come le sue foto, rappresentazione sensuale e dura della realtà. Qui sembra essersi intenerito, il sesso tra adolescenti è esplicito – abbagliante la bellezza e la bravura di Mercedes Maxwell, Drake Burnett e del giovanissimo esordiente Adam Mediano – ma l'amore qui non è escluso dal nichilismo, solo aggirato dalla curiosità e del divertimento. Dopo una prima metà del lungometraggio promettente, però, Clark vede crollare la pellicola sotto il peso della difficoltà di chiuderla, incapace di tirarne i fili per i troppi spunti, forse, messi in piedi. Clark continua ad accarezzare i corpi come pochi, ha l'occhio dell'esteta che cerca un'etica diversa, ma sembra allo stesso tempo fare un film superato che, lui stesso, avrebbe potuto girare quindici anni fa.

Delude anche il tris d'italiani che si divide equamente tra Concorso (Il volto di un'altra di Pappi Corsicato), Fuori Concorso (Il cecchino di Michele Placido) e Prospettive Italia (L'isola dell'angelo caduto di Carlo Lucarelli). Soddisfa solo l'opera di Corsicato, che diverte e appassiona per il suo modo pop d'essere irriverente verso una società schiava della bellezza e dell'ottusa ricerca dell'eccesso e del successo.

La bellezza che rasenta la perfezione fisica di Laura Chiatti e Alessandro Preziosi qui diventa un'arma a doppio taglio e loro sanno impugnarla: sono ottimi nel recitare i simulacri cinici di una società dello spettacolo incapace di provare sentimenti, emozioni, di incarnare un qualche progresso intellettuale o almeno umano. La tv qui è specchio deformante – ma neanche troppo – dei vizi peggiori dell'umanità, della vacuità di chi vive per il consenso altrui e per la propria vanità. Corsicato non teme di scivolare nel trash, in dialoghi scult e mette in campo la sua poetica buffa, grottesca e patinata per conquistarci. Fino al finale, tra Melancholia e Magnolia (ma qui non piovono rane). Michele Placido, invece, fa sì il cecchino, ma degli spettatori. Che con la sua sontuosa coproduzione italofrancese rischiano d'annoiarsi. A morte, e senza l'aiuto del pur ottimo e fascinoso sicario Kassovitz: il film del regista italiano sembra una pallida scopiazzatura del prodotto commerciale medio transalpino nel genere noir (anzi, come si dice a Parigi, Marsiglia e dintorni, nel Polàr). Si salva, della pattuglia italiano, solo Luca Argentero.

Chiudiamo con Carlo Lucarelli, ottimo sulle pagine dei suoi libri e in tv, ma non nel suo esordio al cinema. Pur avendo tra le mani una storia niente male, si perde nei vezzi che da scrittore non ha mai avuto: la vanità dell'autore, le acrobazie visive della regia. Laddove ha sempre trovato nell'essenzialità venata d'ironia e forza immaginifica la qualità migliore della sua prosa scritta, in quella cinematografica tende ad essere barocco ed eccessivo. E così il suo poliziesco al confino fascista – siamo nel 1925 – diventa un dramma tricologico in cui tutto è didascalico. Come quel cavaliere che vorrebbe unire Mussolini a Berlusconi, quelle riflessioni sull'Italia del Ventennio che sembran scritte per il 2012, come quelle camicie nere pettinate malissimo e il confinato con i capelli di Gramsci. Sembra un fumetto ingenuo, più che un film.

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