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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2012 alle ore 08:17.

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La madre di Jean Jacques Rousseau era figlia di un orologiaio. Morì qualche giorno dopo la nascita del figlio e il piccolo crebbe con il padre, David, orologiaio anche lui come suo padre Isaac e suo nonno Jean. David aveva lavorato sei anni a Costantinopoli per il sultano.

Siamo nella Ginevra del 1712, la famiglia Rousseau è una scheggia di rifugiati francesi protestanti che ha trovato riparo nella città di Calvino. Il filosofo cresce nel quartiere di Saint-Gervais, la base della Fabrique, la corporazione di orologiai, gioiellieri, orafi e di tutti coloro che si dedicano all'arte della misurazione del tempo sulle rive del Rodano e che Diderot e D'Alembert nella loro Encyclopédie del 1757 stimano come «cinquemila persone, cioè più di un quinto dei cittadini». È verosimile che il padre del Contratto sociale (1762) sia in debito con questo ambiente, come rivela esplicitamente nell'Emilio: «Sono come un uomo che vedesse per la prima volta l'interno di un orologio e non si stancasse di ammirarne il funzionamento, pur senza conoscere la funzione del meccanismo e senza aver visto il quadrante. Io non so, egli direbbe, a che cosa serva nel suo insieme, ma vedo che ogni singolo pezzo è fatto per gli altri; ammiro l'artefice nei particolari dell'opera e sono pienamente convinto che tutti questi ingranaggi non si muovono con tanta sincronia se non per un fine comune che mi è impossibile scorgere».

E non è un caso che quest'anno, all'interno delle celebrazioni per il terzo centenario della nascita del filosofo, il museo Patek Philippe di Ginevra gli abbia dedicato la mostra Segnatempo firmati Rousseau per celebrarne il legame con l'orologeria. Nel gioco delle influenze reciproche, gli orologiai ginevrini hanno lasciato una traccia nella storia della filosofia, ma a loro volta sono un prodotto della tolleranza e del cosmopolitismo di una città: Ginevra. All'estremità occidentale della Confederazione elvetica, ha accolto nei secoli sulle sponde del lago Lemano rifugiati, perseguitati, immigrati. Un'isola refrattaria alle guerre in cui sono germogliati da una parte un impegno internazionale mai sopito – oggi è sede, tra gli altri, dell'Alto Commissariato Onu per i rifugiati, di Unicef, Croce Rossa, World Trade Organization, Organizzazione mondiale della Sanità –, dall'altra effetti economici non secondari.

Se Lenin e Borges sono forse i più illustri rifugiati del XX secolo – lo scrittore argentino vi morì nel 1986 ed è sepolto nel cimitero di Plainpalais; come racconta l'ultima moglie, Maria Kodama: «Ginevra era la città in cui aveva studiato e che apprezzava soprattutto per il senso del rispetto» –, fu Giovanni Calvino ad arrivarvi per primo, nel 1536, fuggendo dalla Francia cattolica. La sua predicazione e le sue idee attecchirono così profondamente al tessuto sociale al punto di far diventare Ginevra la «Roma protestante». A ruota attraversarono il confine franco-svizzero numerosi ugonotti, alcuni dei quali erano orologiai. «Fu poco dopo il 1550 che diversi orologiai cominciarono ad arrivare a Ginevra, sfuggendo alla persecuzione religiosa del loro Paese d'origine», scrive lo storico dell'economia Carlo M. Cipolla nel saggio Le macchine del tempo. L'orologio e la società 1300-1700.

Jean-Daniel Pasche, presidente della Federazione dell'industria orologiera svizzera, spiega che anche l'organizzazione del lavoro nella stessa Ginevra cambiò in seguito all'avvento del calvinismo: «Nel 1541, le riforme sviluppate da Calvino e il divieto di indossare gioielli costrinsero gli orafi e gli altri gioiellieri a intraprendere un nuovo mestiere indipendente: quello dell'orologiaio». L'etica protestante e lo spirito del capitalismo è un nesso già ampiamente osservato e indagato da Max Weber. Nel Seicento, dopo aver scalzato Parigi, Lione, Norimberga e Augusta, Ginevra diventa con Londra il polo mondiale dell'orologeria. Nel Settecento, continua Pasche, «poiché in città c'erano troppi orologiai, alcuni pensarono di trasferirsi nella regione del massiccio del Giura». Oggi l'insieme delle valli che da Ginevra si estende verso Nord-Est fino a Basilea è anche conosciuto come «vallata degli orologi» e comprende diversi centri di produzione, tra cui Le-Chaux-de-Fonds, Neuchâtel, Sciaffusa. Con i loro conseguenti stabilimenti e musei dedicati.

È lontana l'epoca in cui gli orologiai costruivano anche cannoni, perché il meccanismo che fa scattare le ore o l'innesco della miccia era lo stesso. Nel 2011 la Svizzera ha esportato orologi per 19,3 miliardi di franchi (16 miliardi di euro): il 19,2 per cento in più rispetto al 2010. Nonostante la crisi mondiale e un franco piuttosto forte. Hanno lasciato i confini della Confederazione 29,8 milioni di orologi, soprattutto da polso: il record del decennio, con il 13,8 per cento in più rispetto all'anno precedente. Sono numeri lontani da quelli dell'export cinese (682,1 milioni di pezzi), ma superiori per valore. Le principali destinazioni? Hong Kong (21,2 per cento), Usa (10,3 per cento) e la stessa Cina (8,5 per cento), quest'ultima in crescita del 48,7 per cento. E pensare che nel XVI secolo gli orologi consentirono ai gesuiti di entrare nel palazzo imperiale di Pechino, fino ad allora inaccessibile. I movimenti meccanici che permettevano alle campane di suonare, o che donavano la vita a figure in ferro e bronzo segnando il passare del tempo, stupivano e incantavano.

Come risulta dalle testimonianze del gesuita Matteo Ricci (1552-1610) riportate nel saggio di Carlo M. Cipolla, il senso di meraviglia precedeva e sostituiva ogni collegamento con la praticità: «Essi [i cinesi] guardarono in genere all'orologio come a un giocattolo e solo come a un giocattolo». Un giocattolo miracoloso. Peccato che i calvinisti non credessero nei miracoli dei santi. Nonostante un singolo segnatempo possa arrivare a contenere 1.728 componenti che danno vita a 33 complicazioni (funzioni) come il Calibro 89 di Patek Philippe, un orologio non è certo un miracolo.

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