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Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2012 alle ore 17:39.

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Sylvester Stallone (Reuters)Sylvester Stallone (Reuters)

Il festival di Roma zoppica, ma a salvarlo arriva niente meno che Sylvester Stallone, con il più classico dei suoi eroi: solitario, spaccone, violento. Bullet to the head di quel maestro che è Walter Hill è una delle cose che ci porteremo dietro di questa prima edizione della rassegna capitolina targata Müller. Sembrava il capriccio senile di un divo e un grande cineasta, è invece il vitale ritorno un po' vintage di un genere action anni '80 che ci manca parecchio. E Hill è talmente bravo che riesce a sfruttare a suo favore persino l'imbarazzante maschera del buon Sylvester con cui vecchiaia e, temiamo, botulino non sono stati clementi, riducendo la sua espressività già non particolarmente pronunciata a una grottesca parodia di sé.

Qui il regista de I guerrieri della notte, settant'anni e non sentirli, ne cavalca la voce baritonale, l'immagine costruita in anni di carriera e l'autoironia per farne un eroe crepuscolare dai sentimenti tagliati con l'accetta (e quest'arma tenetela a mente, perché sarà al centro del finale) e dalle battute stracult che ripeterete per anni. Il resto lo fa una buona spalla come Sung Kang, dalla recitazione abbastanza elementare e dal viso sufficientemente tonto da integrarsi alla perfezione con Rocky-Rambo, e la bellezza di Sarah Shahi.

Il racconto è facile da riassumere: un criminale e uno sbirro stringono un patto temporaneo, una giovane donna legata ad entrambi li unisce, e finiranno per rispettarsi laddove prima c'era solo irriverente e bonario disprezzo o (pre)giudizio morale. Tutto già visto, almeno 30, se non 40 anni fa, ma tutto raccontato così bene che ci si sente ringiovaniti e ci si rende conto che quando non comandavano (solo) dollari e marketing, anche il cinema più pop e commerciale regalava dei gioielli. Proprio come Bullet to the head.

Ma la vera sopresa è S.B. Io lo conoscevo bene di Giacomo Durzi e Giovanni Fasanella. Dove quelle due iniziali stanno, ovviamente, per Silvio Berlusconi. Ma non pensate al solito pamphlet, anche perché, come ricorda Fasanella, "il Berlusconi di Travaglio, di Scalfari lo conosciamo fin troppo bene". Qui si cerca l'uomo che ha regnato per un ventennio sull'Italia nella voce, forse nel cuore, sicuramente nel giudizio e nella testimonianza di chi lo ha accompagnato a lungo e poi ha visto la propria strada separarsi dalla sua. La divisione in capitoli del film e della storia, poi, ci permette di osservare con ancora più oggettività l'ascesa e il precipitare di chi, nel bene e nel male, ha rappresentato l'Italia per molto tempo. E così scopriamo che, forse, Berlusconi è stato "costretto" a scendere in campo, non solo per proteggersi ma anche per difendere una classe, un'èlite che lo ha strumentalizzato. O per arginare apparati deviati (Gladio) o pericoli considerati troppo difficili da affrontare. Guardando questo eccellente documentario, dalle interviste a Dotti fino a quelle a Pillitteri e Ferrara, non troviamo il Caimano, ma un imprenditore che si è fatto governante, un uomo con le sue debolezze, ignoranze ma anche slanci e lati positivi. Eppure il giudizio politico e storico rimane feroce e impietoso, nulla gli viene risparmiato. Ma grazie a un lavoro originale – ricorda quello di Sorelle d'Italia di Lorenzo Buccella e Vito Robbiani, in cui invece erano anonime sostenitrici dell'ex premier a essere ascoltate – Sua Emittenza ci viene restituito nella sua tridimensionalità. E non è poco.

Forse anche attraverso questi documentari passa la crescita politica, storica e intellettuale del nostro paese.

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