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Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2012 alle ore 10:57.

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Che si tratti del mestiere più antico del mondo è cosa nota a tutti. Che ai tempi dell'antica Roma riscontrasse una fiorente domanda di pubblico ve l'avranno detto chissà quante volte. La cosa che però molto probabilmente nessuno vi avrà spiegato è che all'epoca la prostituzione rappresentava una fonte di reddito tutt'altro che trascurabile per le famiglie più ricche che vi «impiegavano» una porzione consistente del loro parco-schiavi.

«L'idea comune di ciò che erano il sesso e la prostituzione in età romana – spiega l'archeologo Pietro Giovanni Guzzo - è inquinata da troppi falsi miti, nati dopo il 1748, a seguito delle prime scoperte archeologiche nell'area vesuviana. Abbiamo letto troppa cattiva letteratura e visto tanto pessimo cinema così che abbiamo finito di immaginarci l'antica Roma come una specie di baccanale permanente, dove la preoccupazione generale era la soddisfazione dei piaceri carnali. E si tralasciano gli aspetti più importanti del problema.

Pochi sanno per esempio – continua lo studioso - che l'approccio alla prostituzione da parte delle famiglie più ricche era prima di tutto economico. Potremmo quasi dire manageriale». Guzzo è stato a lungo soprintendente di Pompei ed Ercolano. Tre anni fa, a quattro mani con lo storico del diritto romano Vincenzo Scarano Ussani, ha scritto il saggio «Ex corpore lucrum facere: la prostituzione nell'antica Pompei», edito da L'Erma di Bretschneider. Un libro che incrociava rilievi archeologici, fonti letterarie e storiche, la cui novità consisteva proprio nell'approccio «economico» a cotanto tema.

Prima il prezzo, poi la prestazione
Tanto per cominciare, parliamo di un fenomeno consistente: «Il Catalogo Regionario del IV secolo d.C. – racconta Guzzo – individuava sul territorio di Roma la bellezza di 92 bordelli». Per ovvi motivi, tracce dei postriboli citati nel testo non ce ne sono pervenute. Ma per fortuna abbiamo Pompei, «l'area archeologica – spiega l'ex soprintendente – che fotografa la città com'era nell'agosto del 79 d.C. Un sito straordinario che ci ha lasciato l'unico edificio dell'antichità sulla cui funzione di bordello non esiste dubbio alcuno e ben 59 rilievi riferibili a pratiche sessuali più o meno a pagamento». Oltre al lupanare, con quegli affreschi sui «mille modi» che sembrano la trasposizione pittorica dell'«Ars Amandi» di Ovidio, ci sono opere d'arte altrettanto eloquenti sparse in giro per le domus e numerosi graffiti con ragazze e ragazzi che si mettevano in vendita, illustravano con dovizia di particolari le loro abilità, fissando con puntualità il prezzo per la prestazione offerta.

Non è un mestiere per donne libere
Aspetto fondamentale e spesso trascurato: «Il mestiere di prostituta – sottolinea Guzzo – non era consentito alle donne e agli uomini liberi. Quelli che lo praticavano venivano etichettati come infames e perdevano una serie di diritti, inclusa la facoltà di testimoniare di fronte a un giudice». La prostituzione era allora appannaggio di schiavi e liberti, «coloro i quali non avevano diritti e, di conseguenza, non avevano neanche doveri». Che potevano vendere il proprio corpo al lupanare, alle terme o in taverna. «Esiste documentazione letteraria molto nutrita – continua l'archeologo – sulla pratica del mestiere in tutti questi luoghi».

Un «patrimonio» in carne e ossa
Ma gli schiavi erano proprietà privata «e questo – secondo Guzzo – rappresenta uno degli aspetti più interessanti: non esercitavano per conto proprio, quanto piuttosto erano obbligati a vendere il proprio corpo per fare gli interessi economici del padrone». Un po' come se fossero beni immobili, campi agricoli o animali da soma da «affittare» a terzi. E si arriva così a una delle ricostruzioni più suggestive del saggio di Guzzo e Scarano Ussani: ogni uomo libero che «investiva» in schiavi poteva allestire squadre di prostitute e prostituti che obbedivano a un lenone (di solito era un liberto di fiducia) e si vendevano in giro procacciandogli liquidità. Un «patrimonio» in carne e ossa dalla rendita certa ma purtroppo soggetto a svalutazione (l'età, si sa, ha il suo peso).

Bordelli «domestici»
Un'ultima curiosità: ricordate quei piccoli ambienti pieni di raffigurazioni erotiche in alcune delle più celebri domus pompeiane, come la Casa dei Vettii e la Casa del Centenario? «Secondo l'interpretazione moderna – spiega Guzzo – potevano esercitare tre funzioni diverse: o erano luoghi in cui incentivare l'accoppiamento tra schiavi affinché nascessero altri schiavi, o erano sale del piacere in cui il padrone di casa in compagnia di amici, a fine cena, poteva intrattenersi con schiave e schiavetti. Oppure ancora erano i luoghi che il dominus metteva a disposizione dei clienti delle sue schiave per la consumazione». Certo è che il sesso a pagamento doveva offrire un contributo niente male al Pil dell'epoca…

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