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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2012 alle ore 08:18.

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«Murderme». Nel linguaggio contratto di oggi, uccidimi. Di più, massacrami. È il nome della raccolta formata da Damien Hirst: duemila pezzi tra importanti opere d'arte, anonimi manufatti ed esempi di «naturalia et mirabilia». Elena Geuna ne ha selezionati un centinaio per la mostra della Pinacoteca Agnelli, che ancora una volta – e ora più che mai – presenta qualcosa di raro e prezioso. Perché se è vero che una collezione è il ritratto (e una sorta di test proiettivo) della personalità di chi l'ha composta, in questo caso lo è di uno degli artisti più famosi, inquietanti e discussi del nostro tempo.
Torturato da sempre dal pensiero della morte, Hirst celebra nei suoi lavori la corruzione della materia. Francis Bacon (il suo maestro più amato, insieme ad Andy Warhol) non poteva dunque mancare, e infatti in mostra due suoi splendidi dipinti dialogano con uno scarnificato Busto d'uomo di Giacometti. Insieme, Frank Auerbach, Peter Blake, Richard Hamilton: i «maestri» inglesi della generazione precedente.
Non è con loro però che inizia il percorso. Dopo la zebra (in resina per fortuna) di Michael Joo, le cui strisce nere, strappate via, mettono a nudo muscoli e tendini («un san Bartolomeo scorticato» per Hirst) e il collage di Schwitters, la prima sala riunisce le opere degli amici più cari, compagni di studi al Goldsmiths di Londra e poi membri come lui della Young British Art. A lanciarli fu la mostra «Freeze», 1988, curata dallo stesso Hirst; a promuoverli a livello planetario il potentissimo Charles Saatchi. Ecco Sarah Lucas e Tracey Emin, Rachel Whiteread, Gary Hume, Rachel Howard, insieme al più giovane Jim Lambie e a Cerith Wyn Evans: come dire, la crème dell'arte britannica recente, a cui si aggiungono, poco oltre, i maestri e gli amici americani (da Warhol a Currin) e Mario Merz. Ma il suo mondo più privato è di sotto, nella sala dei teschi, dove antiche Vanitas e anonime sculture convivono con uno splendido Picasso del 1943, con gli Skull di Warhol, Orozco, Marcus Harvey, Murakami, Vic Muniz e con la parata di crani di Steven Gregory rivestiti dei materiali più diversi: modelli questi, denunciati da Hirst, del suo arcinoto For the Love of God, 2007, il teschio ricoperto di diamanti. A questa sala luttuosa dovrebbe opporsi quella degli animali: ma, se si esclude Jeff Koons, come non avvertire anche qui il fiato della morte, fra scheletri, uccelli tassidermizzati e l'atroce gattino di Colin Lowe, crivellato da crudeli micro-banderillas?
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Freedom not Genius. Opere dalla collezione murderme di Damien Hirst, Torino, Pinacoteca Agnelli, fino al 10 marzo; www.pinacoteca-agnelli.it

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