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Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2012 alle ore 11:47.

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Illustrazioni di María CorteIllustrazioni di María Corte

Ecco la tesi precostituita: la Spagna, così come l'abbiamo conosciuta finora, non esisterà più. I quasi quattro decenni trascorsi dalla morte di Francisco Franco, dalla cosiddetta transizione democratica, e dalla Costituzione del 1978 ci hanno consegnato uno Stato con enormi fragilità costitutive, fondato su un'obbligazione politica mal congegnata, a perdere. Quand'anche fosse stato accostato in passato il termine classico di Stato-nazione alla Spagna, si è trattato di un indubbio errore.

La «Spagna delle autonomie», la «Spagna delle nazioni» che da poco anche il placido premier Mariano Rajoy ha cominciato a brandire come soluzione agli attuali stalli centripeti è sempre stata la realtà delle cose. Gli analisti più accorti sono spesso stati refrattari a definire la Spagna come Stato tout court, utilizzando a ragion veduta il termine "progetto". Ebbene, il «progetto Spagna» – quantomeno quello originario – è sulla via del fallimento. I motivi sono noti: un'economia disastrata con poche possibilità di ripresa perché fondata sugli aspetti meno solidi del terziario avanzato (turismo, immobiliare interno, lifestyle). Con una produttività sostanziale quasi nulla, la disoccupazione è l'ovvia conseguenza di un'economia drogata dalle illusioni zapateriste del decennio d'oro, che ha lasciato al paro (cioè a casa) il 25 per cento della popolazione (nuovo record storico), con un incredibile 52 per cento nel segmento giovanile.

Poi ci sono l'Europa e i tentennamenti di Rajoy sul rescate, quegli aiuti finanziari visti da una buona parte della machista politica iberica come una resa chiavi in mano del Paese ai burocrati di Bruxelles e Francoforte. A seguire, i particolarismi. C'è il Paese Basco che ha appena votato compatto a favore delle due forze nazionaliste (oltre il 60 per cento dei seggi), e c'è la Catalunya, precipitata dai consessi dei «quattro motori d'Europa» (con Lombardia, Baden-Württemberg e Rhône-Alpes), alle periferie dell'impero produttivo globale. 22,5 per cento di disoccupazione (dal 6,5 per cento del 2007); 29,5 per cento della popolazione a rischio povertà; oltre 5 miliardi di aiuti chiesti a Madrid per far fronte alle spese correnti. Con l'ultima adesione, quella della Cantabria, sono 9 – su 17 – le regioni spagnole ad aver aderito al Fondo di liquidità autonomico predisposto dal Governo.

Ma chi pensasse che la questione catalana sia soltanto figlia della pessima contingenza economica si sbaglierebbe. Già in España invertebrada, saggio del 1921, José Ortega y Gasset mise in luce una diagnosi della situazione nazionale spagnola, assalita dai fantasmi del particolarismo e della disintegrazione, perfettamente aderente alla situazione odierna. Sul caso catalano poi, Gasset arrivò a coniare il termine conllevancia («El problema catalán no se puede solucionar, sólo se puede conllevar»), un misto di attenzione, armonizzazione, e mutuo rispetto senza il quale la questione catalanista sarebbe esplosa. Le cose sono andate diversamente (vedi la bocciatura del nuovo Statuto autonomico da parte del Tribunale costituzionale del 2010, che avrebbe avvicinato la regione all'autonomia fiscale in vigore nel Paese Basco e in Navarra), ed ecco che la Catalunya si prepara al voto del 25 novembre su una piattaforma estremamente politicizzata.

Le timide aperture di Rajoy oggi appaiono del tutto tardive (per non parlare delle inutili provocazioni dell'ex premier Aznar: «Non ci sarà mai una Catalunya unita fuori dalla Spagna» e dell'attuale ministro dell'Educazione José Ignacio Wert: «Dobbiamo "spagnolizzare" i catalani»). A minacciare l'integrità ci sono due ulteriori spinte: da una parte le piazze urlanti, a ogni latitudine in rivolta. C'è la galassia antagonista del 15-M e del 25-S che protesta a Madrid contro i 65 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica, a Siviglia contro la disoccupazione (in Andalusia si sfonda il 35 per cento), a Barcellona per l'indipendenza, in Asturia contro la morte del settore minerario.

E c'è, infine, un panorama politico in sconvolgimento, un sistema che finora è stato, pur con le attenuazioni regionali, al fondo bipartitico e che è entrato in crisi. I popolari di Rajoy, dopo il 44,6 per cento dei voti di un anno fa, oggi sono al 28 per cento. I socialisti stanno ancora peggio: 23 per cento su scala nazionale. Il progetto-Spagna è in consunzione. All'orizzonte si intravedono solo due possibilità. La prima, iper-federalista, con i capitoli decisionali più importanti delegati alle comunità autonome più "movimentiste"; la seconda, più fosca: se la Catalunya andrà allo scontro frontale con Madrid come ha promesso, non farà altro che trascinarsi dietro i baschi (e forse qualche altra minoranza), disgregando definitivamente il Paese. In entrambi i casi, la Spagna non sarà più la stessa.

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