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Questo articolo è stato pubblicato il 25 novembre 2012 alle ore 08:15.

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«Quello che è importante è che ci sia una torcia illuminata, come la vostra, intorno a cui radunarsi», scrive nel luglio '45 – da Tolosa – Andrea Caffi a Dwight Macdonald, direttore della rivista radicale «politics» (con la "p" rigorosamente minuscola), da lui fondata a New York l'anno prima. È una piccola testata mensile, diffonde poche migliaia di copie a fascicolo, ma nei suoi pochi anni di vita (1944-49) resta una bussola per quanti s'ostinano a ritenersi di sinistra, pur disdegnando l'Urss e reputando il marxismo una via fallimentare per il riscatto delle classi subalterne. Il parterre dei collaboratori è di tutto rispetto. Oltre agli statunitensi Daniel Bell, Paul Goodman, Charles Wright Mills e Mary McCarthy, brillano numerose «spore trapiantate di cultura europea» (come le chiamava il direttore): Albert Camus, Simone Weil (scomparsa nel '43 e qui tradotta in inglese per la prima volta), Bruno Bettelheim, Victor Serge, George Orwell, Ignazio Silone, Niccolò Tucci, Nicola Chiaromonte e Caffi. Sembrano monadi galleggianti, sballottate fra i marosi dell'incombente Guerra fredda.
Ora possiamo riscoprire questi reperti grazie a un'antologia della rivista, curata da Alberto Castelli, autore di un limpido ed esauriente saggio introduttivo (pur gravato da qualche refuso di troppo). Tanta carne al fuoco, anche se non è tutto oro quel che luccica. Se è vero, per esempio, che «politics» fu lungimirante sul flop epocale del socialismo reale, sconcerta la definizione della Seconda guerra mondiale data dal direttore nel primo numero (febbraio '44): uno scontro non «tra il Bene e il Male, o tra la Democrazia e il Totalitarismo, ma tra due imperialismi rivali». Così come la critica del pensiero scientifico, pur giustificata dal trauma di Hiroshima, non spicca per acume e originalità.
Il valore di «politics» risiede soprattutto nell'allure antidogmatica, nel rigetto delle grandi astrazioni collettive – la Classe, la Storia, il Progresso –, incapaci di radiografare il mondo in cui viviamo. «Il progressista pone la Storia al centro della sua ideologia. Il radicale pone l'Uomo», scrive Macdonald. È un umanesimo che rifiuta di sacrificare il presente in nome del futuro: «La radice è l'uomo, qui e non altrove, adesso e non più tardi». Onde i numerosi contributi sul collettivismo burocratico, sulla spersonalizzazione della società, sul dominio dell'apparato statale che lascia gli individui soli e disarmati (all'Est come all'Ovest). Risuonano echi di Tocqueville e Weber, ma anche di pensatori anarchici come Herzen e Proudhon.
Non bisogna però illudersi. Una rivista che s'appella alle minoranze libertarie, in un'epoca dominata dal «feticismo marxiano delle masse», non può incidere sulla carne viva della realtà. Anche la condanna della violenza come levatrice della storia resta una goccia nel mare. E tuttavia, si leggano alcune pagine di Macdonald sulla guerra moderna (aprile '46), probabilmente influenzate da Simone Weil. La guerra è ormai diventata «un fine in se stessa», una «macchina fuori controllo», che una volta avviata s'alimenta da sé, con un esito sempre diverso da quello auspicato, tanto «da rendere la situazione dei "vincitorì" indistinguibile da quella degli "sconfittì"». Parole che dovrebbero far riflettere anche noi contemporanei, stremati da un decennio di fallimentari crociate preventive contro il terrorismo.
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«politics» e il nuovo socialismo. Per una critica radicale del marxismo, a cura di Alberto Castelli, Marietti 1820, Genova-Milano, pagg. 266, € 22,00

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