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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2012 alle ore 08:18.

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Pur essendo lo spettacolo interamente dedicato a celebrarne il mito, la figura di Marco Pantani non appare mai direttamente in scena. È presente grazie a immagini video, spezzoni di programmi televisivi, vecchie foto, ma non c'è un personaggio che lo incarni fisicamente. Come in una tragedia greca, l'eroe morto non viene mostrato, viene solo evocato attraverso il lamento funebre dei sopravvissuti: da un lato i genitori e la sorella, dall'altro il giornalista francese che ha scritto un libro su di lui, i compagni di squadra, gli amici. In mezzo, un suonatore di fisarmonica e un coro forse in verità più brechtiano che eminentemente tragico.
Le parole dei primi, del padre Paolo e della veemente mamma Tonina, una furia incontenibile in perenne attesa di una giustizia riparatrice, fanno rivivere il Pantani per certi versi "privato", quello degli affetti famigliari, dei sogni giovanili e delle atroci delusioni. Le testimonianze dei secondi compongono un denso affresco a metà fra un puntiglioso teatro-documento e una sorta di intricato romanzo giallo, il resoconto – un po' recitato e un po' detto al microfono – di una storia enigmatica, punteggiata di oscure minacce, di interessi inconfessati, di indizi di un possibile complotto.
Accusato, senza prove, di far uso di sostanze illecite, infangato da test che si riveleranno inaffidabili, il campione che la mattina del 5 giugno 1999, a Madonna di Campiglio, prossimo a vincere il suo secondo Giro d'Italia, viene portato via dai carabinieri come un delinquente comune, appare per molti aspetti una vittima sacrificale. È la vendetta di un sistema di potere che lo punisce per avere fatto da portavoce alla rabbia dei colleghi, vessati dai controlli antidoping? È la ritorsione di un ambiente invidioso della sua forza? È un atto della malavita organizzata, legato al giro delle scommesse clandestine?
Marco Martinelli, autore del testo allestito col Teatro delle Albe, non fornisce risposte a questi interrogativi. Il suo non vuole essere uno spettacolo di denuncia su specifiche colpe, d'altronde sorprendentemente estese e ramificate, ma piuttosto un inquieto spaccato dell'Italia di quegli anni, la metafora – colta attraverso un episodio altamente emblematico, come spesso lo sono le vicende dello sport – di un costume nazionale che di fatto non è cambiato: anche qui c'è in azione un circo mediatico-giudiziario che non si ferma di fronte a nulla, testimoni inattendibili, approssimazioni, sentenze di riabilitazione che non hanno mai lo stesso risalto delle condanne.
Quello che ne viene fuori è il ritratto di una società volubile, inutilmente feroce, lesta a creare i propri idoli tanto quanto ad accanirsi su di essi, sottilmente contrapposta a una Romagna dalle salde radici contadine, personificata con vigore da Luigi Dadina, il padre-sostenitore, e soprattutto da Ermanna Montanari, la madre-vestale del ricordo, che ricorre sovente, in questo caso, agli insondabili echi atavici del dialetto. Su tutto, però, sembra alla fine prevalere comunque il respiro epico delle imprese di questo piccolo "scalatore che veniva dal mare", la cui parabola umana è tale da coinvolgere anche chi non sa proprio nulla di ciclismo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Pantani, scritto e diretto da Marco Martinelli, Ravenna, Teatro Rasi,
oggi ultima replica

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