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Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2012 alle ore 09:33.

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Mio marito e io abbiamo un accordo (non proprio un accordo, un editto emanato da me): di notte si alza lui. Se un bambino ha sete, se un'altra ha fatto un brutto sogno, se qualcuno ha la febbre. Io dormo. Oppure mi sveglio, ma resto immobile, a volte gli urlo (piano, ma non pianissimo) nell'orecchio: alzati, ti chiamano! Lui sobbalza, mastica una decina di parolacce e corre al capezzale di questo o quello. Nel frattempo io mi riaddormento. Sono una madre lavoratrice, la mattina devo andare in riunione. Che è più o meno alla stessa ora della riunione di mio marito.

Anche lui è un padre lavoratore. Però nessuno ha ancora organizzato grandi dibattiti sulla difficoltà per i padri di conciliare lavoro e famiglia. Ann-Marie Slaughter, madre di due figli, quando ha scritto Perché non possiamo (ancora) avere tutto, non ha incluso il padre dei suoi ragazzi in questo saggio sul mondo ancora troppo ostile ai genitori (alle madri, per l'esattezza). Eppure il marito della Slaughter è uno di quelli che si ricordano di comprare l'olio che sta per finire, e sa che la bambina a danza ha bisogno delle forcine per lo chignon, e che il ragazzo deve ripassare matematica per il compito in classe. Anche lui ha un lavoro, naturalmente, ma questa eccellente paternità e condivisione viene considerata, di volta in volta, preciso e banale dovere, oppure espressione di bravura eccezionale insufficiente però a compensare i miliardi di padri che non si accorgono di avere accompagnato la bambina all'asilo senza averle infilato i pantaloni.

Succede anche a me: quando arrivo trafelata davanti alla scuola elementare di mia figlia e vedo un paio di padri in attesa, in mezzo al mare di tate e nonni, non immagino mai una corsa eroica in mezzo al traffico per dare ai bambini la sicurezza della figura paterna, o per permettere alla madre di fare lo straordinario in ufficio. Quando vedo una mamma che parla al cellulare, invece, penso sempre: ti capisco, sorella, Giovanna D'Arco era nessuno in confronto a noi, e immagino part-time negati, rinunce a viaggi di lavoro, bucati da stendere e un marito che gioca a golf.
È un cambiamento culturale avvenuto negli ultimi quindici anni, forse: i padri sono enormemente cambiati (Michael Chabon ha scritto un libro uscito nel 2010, Uomini si diventa, in cui racconta nei dettagli una pluripaternità quotidiana fatta di lavatrici, sport, veglie notturne, hamburger e discussioni), e le donne un po' non hanno il coraggio di crederci e un po' approfittano di questo momento di gloria, in cui finalmente viene riconosciuta la fatica di millenni (oppure hanno trovato uno degli ultimi padri nullafacenti rimasti).

Ma sta arrivando anche la ribellione dei padri lavoratori. Hugo Rifkind, editorialista del Times, ha deciso, temerario, di gettarsi contro l'egemonia culturale secondo la quale una donna che si fa in venticinque per i suoi figli giorno e notte è un'eroina del femminismo, e quando le stesse cose le fa un uomo «sono solo uno che se non le facesse sarebbe uno stronzo». Io ad esempio alle vaccinazioni mando mio marito, perché preferisco che i bambini associno la sua faccia alla puntura, invece della mia, e perché se lui mi dicesse che non può scatenerei l'inferno (ho passato due anni della mia vita allattando giorno e notte e lavorando e tu mi neghi un'ora dal dottore? Ho già le lacrime pronte, sono senza pudore). Rifkind chiede che venga riconosciuta ai padri la metà dell'onore. A parte i dettagli lavorativi (nessun uomo viene licenziato o non assunto o discriminato perché sua moglie aspetta un bambino) e quelli ontologici (nessun uomo si ricorda di far scrivere: «Buon compleanno» sulla torta ritirata in pasticceria), io sono d'accordo. Purché di notte si alzi sempre lui, anche per andarli a prendere in discoteca, tra dieci anni.

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