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Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2012 alle ore 15:23.

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Warhol, Nico, i Velvet Undeground & co. Quando la «Banana» conquistò la Grande MelaWarhol, Nico, i Velvet Undeground & co. Quando la «Banana» conquistò la Grande Mela

Se si parla di musica, ci sono gli anni Sessanta anfetaminici e accelerati della Swinging London e quelli lisergici e sperimentali di San Francisco. Ci sono da un lato Beatles e Rolling Stones, dall'altro Grateful Dead e Jefferson Airplane. Poi c'è New York, la Grande Mela che non ha tempo da perdere con l'ottimismo dei baby boomers, si scopre «marcia» e prova a dimenticare i mali del mondo con l'eroina. Ci sono i Velvet Underground, l'anima di quella scena musicale coeva eppure distante anni luce da quanto accadeva dall'altra parte dell'Atlantico e sul Pacifico.

Una band a-tipica che, quando esordisce, cattura pochi intimi ma, decenni dopo, diventa un punto di riferimento imprescindibile per la cultura occidentale. Al pari di Fab Four e Stones, più di Dead e Jefferson. Sul loro conto dirà bene Brian Eno qualche anno più tardi: «Il primo album dei Velvet Underground vendette solo diecimila copie, ma tutti quelli che lo comprarono hanno formato una band». Il riferimento è ovviamente a «The Velvet Underground & Nico», anno di grazia 1967, prime (fondamentali) prove di songwriting del sommo Lou Reed, produzione (e copertina con banana sbucciabile) affidata nientemeno che a Andy Warhol.

La «Banana» deluxe e superdeluxe
Dall'uscita dell'album – che all'epoca recava impressa la sacra effigie della Verve, etichetta «colta» del jazz sperimentale - sono trascorsi ben 45 anni e la Universal, major che oggi detiene i diritti sul capolavoro, celebra la ricorrenza con due spettacolari ri-edizioni. La prima è la superdeluxe: libro illustrato e ben sei cd. C'è l'album tradizionale in versione stereo corredato da cinque alternate tracks, la versione mono dello stesso con i quattro singoli che ne furono estratti, l'album solista di Nico «Chelsea Girl» (1966), le leggendarie Scepter Studios Sessions, primi bozzetti di quello che sarebbe diventato la «Banana» e c'è il Live at Valleydale Ballroom in due cd che rende bene l'idea di cos'era assistere a un concerto dei primi Velvet. Più essenziale la versione deluxe che, invece, riunisce il primo e il quarto disco del cofanetto. Operazione importante che un po' ripropone – arricchendola - l'esperienza del cofanetto «Peel slowly and see» dell'ormai lontano '95.

Galeotto fu Warhol
Quella dei Velvet è una vicenda artistica che non può essere definita altrimenti che esemplare. Tutto parte da Lou Reed, un poeta prestato al rock and roll. Suona la chitarra elettrica e per curiose circostanze incrocia John Cale, musicista classico gallese (suona la viola) innamorato dell'avanguardia minimalista che sta spendendo a New York i soldi di una borsa di studio ottenuta nel Vecchio continente. Il cerchio si allarga presto a Sterling Morrison, chitarrista nonché compagno di Reed alle lezioni che il poeta Delmore Schwartz tiene alla Syracuse University. E a Moe Tucker, conoscente di Morrison con lo strano vizio di suonare la batteria in piedi. Insieme prenderanno il nome di Velvet Underground, in omaggio all'omonimo romanzo di Michael Leigh che racconta di fruste, corpetti di pelli e sesso estremo. Scelta programmatica per una band che avrà in scaletta «Venus in furs», omaggio alla Venere in pelliccia del barone Sacher Masoch. Ma la scintilla che provoca l'incendio è l'occhio del profeta della Pop Art Andy Warhol che s'innamora delle liriche iper-realiste di Reed (della struggente «Heroin» come della beffarda «Femme Fatale») e del suono apocalittico della viola di Cale e decide così di tenere a battesimo l'esordio del quartetto.

Factory Boys (and girls)
La musica dei Velvet diventa presto la colonna sonora delle folli serate d'arte della Factory. Warhol però fa a modo suo: impone alla band come cantante principale (o meglio: «chanteuse») Nico, la fotomodella tedesca nota in Italia soprattutto per la fulminante apparizione ne «La dolce vita» di Federico Fellini. Era una protetta del padre della Pop Art, stessa sorte dei vari Paul Morrissey, Joe Dallesandro, Edie Sedgwick e Ultra Violet di cui il Maestro a fasi alterne s'innamorava. Diventerà una delle attrazioni principali dell'«Explodic Plastic Inevitable Show», spettacolo multimediale prodotto dalla Factory. Ma Lou Reed non è tipo da lasciarsi plasmare come cera: romperà con Nico e lo stesso Warhol già a partire dal secondo album «White light/White heat», romperà il giocattolo nel '70, lasciandone i resti fumanti nelle mani del subentrato Doug Yule. Tre anni più tardi i Velvet usciranno dalle cronache musicali per entrare nella storia. O forse dovremmo dire nella leggenda.

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