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Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2012 alle ore 08:18.

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Al di là di ogni altro motivo di interesse, i Tre atti unici di Cvechov nella messinscena di Roberto Rustioni sono una lezione di assoluto minimalismo teatrale. È minimalista l'allestimento spoglio, è minimalista la chiave interpretativa adottata, che porta a estreme conseguenze un certo tipo di recitazione assai vicina all'informalità della parlata quotidiana, di cui già aveva fatto un uso esemplare nel bellissimo Lucido di Rafael Spregelburd. Ma è minimalista anche la scelta in sé dei materiali drammaturgici, la cui apparente inconsistenza è strettamente connessa agli intenti dell'operazione. Una domanda di matrimonio, L'orso e L'anniversario sono infatti tre brevi testi che l'autore considerava poco più che dei puri pretesti comici. Puntando su di essi, Rustioni si concede una libertà di intervento – diciamo pure di manipolazione, o di sperimentazione linguistica – che la struttura chiusa delle opere maggiori difficilmente consentirebbe. Inoltre, la loro assenza quasi totale di contenuti gli dà invece la possibilità di isolare e porre in luce un unico aspetto, un unico nucleo emotivo che si carica così di significati imprevisti. Le tre vicende riguardano un proprietario terriero che va a chiedere la mano della vicina di casa, e si trova a litigare furiosamente con lei per questioni di confini, un creditore che si presenta a una vedova inconsolabile pretendendo il dovuto, e se ne innamora, un direttore di banca che si prepara a festeggiare l'anniversario del suo istituto, fra una moglie bislacca e una cliente invadente. Tutte e tre restano come sospese prima di concludersi, tutte e tre sono sfrondate, decontestualizzate, ridotte a una mera casistica dei rapporti uomo-donna.
Nello spazio rigorosamente vuoto, arredato solo da una serie di sedie disposte ai lati e da due tavolini, i quattro attori siedono immobili in attesa che arrivi il loro turno, indossando di volta in volta i pochi capi di vestiario che serviranno a definire i personaggi. Ma la vera sostanza dello spettacolo si evidenzia tra una scena e l'altra, quando evocano una trama di piccoli gesti nevrotici, compulsivi, si toccano la bocca, si passano le dita sotto al naso, e danno vita a elementari azioni coreografiche improntate a un confronto brusco, irrequieto tra i sessi. Le due figure maschili e le due figure femminili che via via incarneranno i protagonisti delle varie piéce compiono i movimenti rigidi, ossessivamente ripetitivi di chi è costretto a un rito atavico, cui non può sottrarsi: si cercano e si respingono, si respingono e si cercano, senza sosta; si cercano sapendo che non si troveranno, ma non riescono a smettere di cercarsi. E ciò che accade nei tre atti non è che un riflesso di questo impulso cieco, di questo stato d'animo assillante che ne L'anniversario arriva quasi a sfiorare un accenno di violenza trattenuta.
La dizione informale, volutamente bassa, piena di esitazioni e di imbarazzi, quel modo di recitare come se non si stesse recitando, come se si stessero esprimendo dei sentimenti personali, vuole ricalcare l'andamento casuale della vita. È una recitazione che corrisponde profondamente a Cvechov e insieme lo trascende, perseguendo una verità che scavalca le convenzioni del teatro. E sono bravissimi lo stesso Rustioni, Antonio Gargiulo e soprattutto le due ragazze, Roberta Rovelli e una straordinaria Valentina Picello, a mantenere questa sorta di naturalezza minuziosamente studiata e costruita.
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Tre atti unici da Anton Cvechov, regia
di Roberto Rustioni, Milano, Teatro i, fino al 10 dicembre

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