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Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2012 alle ore 08:19.

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Non era tra Verdi e Wagner, il duello. Era tra due città, Roma e Milano, due teatri, Scala e Opera, due direttori, Muti e Barenboim. Chiuse trionfalmente entrambe le inaugurazioni, le carte si possono scoprire. Con una premessa: teniamoci cari questi duelli. Testimoniano un primato della nostra civiltà musicale. Un'eccellenza che altrove non esiste. Inarcate il sopracciglio? Trovate un altro Paese nel mondo, che nel giro di dieci giorni sfoggi i nomi di una doppietta di questo livello.
Muti ha portato nell'agone il Teatro della Capitale. Fino a pochi anni fa nessuno l'avrebbe quotato. Ora è in prima sfera, per livello di Orchestra e Coro, definizione di uno stile che è nella musica e si rispecchia nell'immagine complessiva dell'istituzione. Alla prima, la sala scintillava, un'elegante mostra di costumi di Caramba degli anni Venti accoglieva nel foyer, la brossura conferiva classe al programma. Persino la "a" mancante (è un dettaglio, ma fa da metafora) è stata aggiunta: "scensore" ora si legge come si deve.
Il silenzio assoluto dai palchi resta però ancora da conquistare. E sulla locandina una svista segnava domenica, quando si era di martedì. Ma il passo da gigante è compiuto. Il Coro di Roberto Gabbiani sa cantare leggero e intenso, ben articolato e drammatico. Col canto ha persino guadagnato una postura più nobile. E in una compagnia che non vantava star (il protagonista del "Simone", George Petean fino a ieri nessuno lo aveva mai sentito) il direttore ha plasmato caratteri, individualità vocali. Dal bel legato verdiano, non ha bisogno di gridare "E vo gridando pace", perché quell'andar gridando, contiene tutta l'inanità di un'utopia. Accanto, il tenore Francesco Meli, con bella espansione piena, incarna la giovinezza di Adorno: contagioso. Maria Agresta, Amelia, in un paio di legati filati si impone regale. Il Simon Boccanegra era il più bel Verdi mai diretto da Muti. Profondo, raffinato, complesso. Moderno teatro di parola con inserti di puro belcanto. Pittura orchestrale tra gigantismo ed essenzialità, monumentale e fragile. È retorico dire peccato Milano si sia persa i frutti migliori del lungo cammino interpretativo? Diciamolo. Peccato solo zero regia nello spettacolo di Adrian Noble.
Daniel Barenboim alla Scala ha consegnato un Wagner come sa dirigerlo solo lui: tenuto nella complessità di un'unica arcata, in tensione ipnotica da inizio a fine, con un dominio della massa di orchestra-coro-solisti magistrale. Il Preludio di apertura era una lezione sul dirigere senza segno di battuta, col suono che diventa spazio, i timbri come lampi di acciaio, la quinta finale la-mi sbalzata come un approdo, contenente già tutta la spiritualità dell'opera. Col secondo atto disegnato come epitome del negativo, compatto nel disegno formale, sul nervo scoperto del "mai devi domandarmi". Quando la musica diventa pensiero. E col terzo disgregato sugli affetti infranti, sull'impossibile felicità. Quando si avanzano riserve sul gesto direttoriale di Barenboim, lo si guardi in Wagner: qui è bellissimo. Perché qui ci crede.
All'opposto di Roma, Lohengrin vantava una compagnia di fuoriclasse. Ma col colpo di scena della primadonna sostituita nella notte della prima: Annette Dasch è uscita meravigliosamente vittoriosa, sia perché ha la statura della straordinaria professionista (dove sono le scuole di canto in Italia che stiano alla pari con la Germania?), sia perché aveva intorno la trama di un progetto teatrale, preparato nel dettaglio, profondo, dove tutti l'hanno accolta come il tassello che mancava. Superbo Jonas Kaufmann, letteralmente reinventato sulla vocalità dell'anti-eroe: sarà difficile non pensare a lui come modello assoluto di Lohengrin. Tra la sua frase di entrata, sillabata rincantucciato a terra, smarrito, con cenni di epilessia, e il racconto ormai metafisico (sottovoce ma riempie come pochi la sala!) del terzo atto, si esplora un mondo di affetti, mai toccato tanto nel profondo.
Complessa l'attrazione verso il male di Ortrud, la tagliente e diabolica Evelyn Herlitzius. C'è un vecchio pianoforte verticale, onnipresente in scena (citazione di uno di Wagner) simbolo della casa borghese tedesca. La malvagia ex maestra chiude a Elsa la mano sotto il coperchio. È un gesto, dice tutto. Umanissimo, a contrasto, il re di Renè Pape, incarnazione della tenerezza nel potere. Ottimi Tomas Tomasson, Telramund, e Zeljko Lucic, l'araldo: il primo atto prende con loro una tinta scura impareggiabile. Il Coro di Bruno Casoni recita come non mai, ma intanto sfoggia una tinta morbida che schiude poesia, anche nei momenti teutonici. La regia di Claus Guth è in ogni frazione di secondo commovente teatro in musica, pensato in squadra, con lo scenografo Christian Schmidt. E il cigno c'era: da inizio a fine, nascosto tra piumette svolazzanti. Alla fine sublime, una luce tremolante, in alto sul soffitto del teatro. Spettacolo magnetico, romantico, che racconta, resta, fa pensare.
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«Simon Boccanegra», di Verdi; direttore Riccardo Muti, regia di Adrian Noble; Roma, Teatro dell'Opera, fino al 11 dicembre.
«Lohengrin», di Wagner; direttore Daniel Barenboim, regia di Claus Guth; Milano, Teatro alla Scala, fino al 27 dicembre.

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